venerdì 16 luglio 2021

Edith Bruck, "Il pane perduto", La nave di Teseo


 Probabilmente questo è il libro che, fra tutti quelli presenti nella rosa dei candidati, avrebbe meritato maggiormente di aggiudicarsi il premio Strega (se i premi letterari hanno un senso); non perché fosse indiscutibilmente il libro più bello, ma perché appare il più necessario.
 Giunta ai suoi novant'anni, temendo di perdere la memoria, l'autrice - ebrea mitteleuropea reduce da Auschwitz - ripercorre le tappe fondamentali della propria tragica e avventurosa esistenza: lo scheletro di tutta una vita capace di reggere la polpa dei sentimenti, il sangue dei pensieri.
 Il titolo deriva dal pane che Deborah, la madre della giovane Ditke (questo il soprannome della protagonista-narratrice), sta preparando nel momento in cui, nella primavera del 1944, si presentano alla porta della loro casa, in un piccolo villaggio ungherese non lontano dal confine con la Cecoslovacchia, due "croci frecciate", intimando a tutta la famiglia di sgomberare le stanze e di portare con sé lo stretto indispensabile. 
 Fino a quel momento l'infanzia di Ditke è stata povera, ma non infelice: l'amore per la scuola e per la scrittura, l'atteggiamento tutto sommato non ostile della maggior parte dei vicini, il calore domestico hanno permesso alla piccola e ai suoi familiari di dimenticare quello che avveniva nell'Europa stretta nella morsa di Hitler, e quello che avveniva dentro l'Ungheria stessa, retta da un governo filonazista. 
 Ma tutto improvvisamente cambia: prima c'è il trasferimento nel ghetto ebraico della più vicina città (miseria, confusione, fame, però con la consolazione di essere ancora tutti insieme); poi la deportazione nel campo di sterminio di Auschwitz, dove muoino il padre, la madre (subito selezionata per le camere a gas), il fratello minore Jonas.
 
Una giovane Edith Bruck
 
 Ditke e la sorella maggiore Judit (di quattro anni più grande di lei), invece, sopravvivono. Una ha quattordici anni, l'altra diciotto, e sono considerate idonee al lavoro. Mese dopo mese passano da un campo all'altro, sfinite, umiliate, con il pericolo della morte costantemente incombente, concentrate sulle proprie necessità fisiche, senza badare più alle voci dell'avanzata delle forze armate sovietiche ed angloamericane, e della sconfitta imminente dei nazisti.
 La liberazione da Bergen-Belsen, quando arriva, è una vera e propria rinascita. Eppure, tornando a casa, le due sopravvissute - diventate quasi inseparabili - non trovano solidarietà e comprensione, ma indifferenza, sospetto, a volte diffidenza; persino da quei parenti che non hanno conosciuto l'orrore dei lager e che, ora, nella generale indigenza del dopoguerra, hanno ciascuno i propri guai, difficoltà da affrontare che l'egoismo ingigantisce. 
 In tempi diversi e dopo nuove peregrinazioni, Judit e Ditke accettano di partire per Israele, la nuova terra promessa degli ebrei: ma mentre la prima riesce a trovarvi un uomo che l'ama e la pace, la protagonista vi si sente a disagio, fra la necessità di lottare per qualsiasi cosa, nuove difficoltà linguistiche e culturali, l'idiosincrasia per le armi indispensabili a difendere con tenacia gli aridi territori strappati agli inglesi e agli arabi. 
 
Edith Bruck oggi
 
 A soli diciassette anni, per evitare il servizio militare che non sopporterebbe (come non sopporterebbe la promiscuità di un dormitorio comune, essendo troppo vivo il ricordo dei letti e delle baracche dei campi di concentramento, in cui poteva capitare di svegliarsi accanto ad un cadavere), Ditke si sposa con un giovane marinaio, che però è terribilmente geloso e la maltratta. La seconda volta che alza le mani su di lei, la ragazza lo lascia e chiede il divorzio. E dopo un breve soggiorno presso la sorella, si trova di nuovo in viaggio, zingara: ballerina e cantante in una compagnia teatrale attraverso l'Europa.
 La sua nuova casa la giovane Ditke la trova in Italia quando, con un altro gruppo di artisti girovaghi, approda a Napoli: la gente, la cultura, il clima, il calore umano fanno sbocciare qualcosa di magnifico dentro di lei. 
 Stabilitasi a Roma, la protagonista diventa - grazie alla sua conoscenza delle lingue e alla sua facilità nell'apprendere cose nuove - direttrice di un centro estetico in via Condotti, frequentato da fascinose attrici e nobildonne piene di sé; darà presto l'addio alla spocchia delle sue importanti clienti e alla maleducazione della sua datrice di lavoro licenziandosi quando, dopo aver pubblicato il suo primo libro, conoscerà e sposerà il poeta e regista Nelo Risi.
 Dicevamo che l'Italia diventa la nuova casa di Ditke; non la sua patria perché, scrive l'autrice, "la parola patria non l'ho mai pronunciata: in nome della patria i popoli commettono ogni nefandezza. Io abolirei la parola patria come tante altre parole: mio, zitto, obbedisci, la legge è uguale per tutti, nazionalismo, razzismo, guerra e quasi anche la parola amore, privata della sua sostanza".
 Il libro è di una magnifica essenzialità: è come un quadro in cui il pittore sia riuscito a ottenere il massimo dell'espressività con la più grande economia di mezzi, e in cui tutto appare quindi diretto, potente, definitivo. Ogni parola finisce per avere un peso specifico straordinario; ogni immagine l'incontestabile veridicità di un filo d'erba o di un sasso. 
 
In poche parole: probabilmente questo è il libro che, fra tutti quelli presenti nella rosa dei candidati, avrebbe meritato maggiormente di aggiudicarsi il premio Strega (se i premi letterari hanno un senso); non perché fosse indiscutibilmente il libro più bello, ma perché appare il più necessario.
Giunta ai suoi novant'anni, temendo di perdere la memoria, l'autrice - ebrea italiana di origine mitteleuropea reduce da Auschwitz - ripercorre le tappe fondamentali della propria tragica e avventurosa esistenza: lo scheletro di tutta una vita capace di reggere la polpa dei sentimenti, il sangue dei pensieri.
Il libro è di una magnifica essenzialità: è come un quadro in cui il pittore sia riuscito a ottenere il massimo dell'espressività con la più grande economia di mezzi, e in cui tutto appare quindi diretto, potente, definitivo. Ogni parola finisce per avere un peso specifico straordinario; ogni immagine l'incontestabile veridicità di un filo d'erba o di un sasso. 

Voto: 7,5

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