domenica 26 febbraio 2017

Marilynne Robinson, "Gilead", Einaudi


 La letteratura può anche essere una forma molto intelligente di resistenza politica; per questo oggi ho deciso di proporre questo incantevole libro di Marilynne Robinson (di cui Lila, che ho già avuto modo di recensire, è il prequel), uscito pochi anni fa e capace di dare un'immagine del ventre degli Stati Uniti d'America molto diversa da quella gaglioffa rappresentata e incarnata da Donald Trump, e data per scontata da molti giornalisti.
 Gilead è una cittadina dell’Iowa, America profonda; qui John Ames, pastore della locale chiesa congregazionalista, ha passato tutta la vita e, a settantasei anni, malato di cuore, scrive al figlio ancora bambino che non vedrà crescere affinché da adulto sappia chi era suo padre.
 Siamo nel 1956, Dwight Eisenhower si appresta a essere eletto per la seconda volta Presidente degli Stati Uniti, ma il divagante racconto del reverendo Ames si spinge assai più indietro nel tempo, fino all’epoca della sua infanzia e oltre. Nelle pagine del suo lungo scritto, che è insieme una lettera e un diario, egli parla del padre e del nonno, anch’essi uomini di chiesa: il nonno, una mitica figura di predicatore ascetico e visionario, capace di salire sul pulpito con la pistola alla cintola ai tempi della Guerra di secessione per spingere i suoi concittadini a combattere per l’abolizione della schiavitù; il padre, un pacifista convinto, in eterna lotta con il bellicoso e irrequieto genitore.
 In un continuo confronto con i suoi avi e con i testi sacri, Ames ripercorre le tappe importanti e i momenti difficili della sua esistenza e di quella della sua comunità, e insieme affronta sottili questioni teologiche e morali calandole nella concretezza della propria esperienza; così facendo precisa la sua fede in Dio e cerca di prepararsi alla morte, ma nello stesso tempo non perde occasione per esprimere la sua meraviglia di fronte allo spettacolo di questo mondo e della vita: guarda con gioia la bellezza della natura, osserva con emozione suo figlio che gioca, contempla con amore la sua dolce mitissima moglie, molto più giovane di lui e conosciuta quando non sperava più di poter avere una famiglia sua. In ogni sua parola c’è una grande serenità e un pizzico di nostalgia per la realtà sensibile che è destinato a lasciare.

Marilynne Robinson

 Sarebbe il lungo congedo dagli affetti terreni di un uomo giusto in pace con se stesso e con i suoi simili, se non intervenisse un elemento disturbante: l’arrivo in città di Jack Boughton, il figlio del migliore amico del reverendo Ames. La diffidenza nei confronti dell’uomo, che è stato un giovane irresponsabile e scapestrato, il timore che questi possa prendere il suo posto accanto alla moglie e al figlio, e la gelosia che tale pensiero suscita in lui, inquietano Ames. Il tentativo di deporre il proprio risentimento e di giudicare con maggiore onestà ed equanimità Jack Boughton costituirà l’ultima prova dell’anziano pastore, e l’ultima occasione per testimoniare a suo figlio cosa sia lo spirito cristiano.
 Con John Ames, Marilynne Robinson riesce a forgiare con spettacolare perizia un personaggio come pochi se ne vedono nella letteratura contemporanea, plasmando alla perfezione una mentalità e un modo di esprimersi che le permettono di presentare al lettore un’immagine in tutto e per tutto coerente – e profondamente affascinante – del mondo in cui il reverendo vive e del mondo in cui hanno vissuto suo padre e suo nonno. In questo modo non solo costruisce una splendida cattedrale letteraria, ma entra anche fin nel cuore dell’America che meno si conosce, l’America puritana, l’America che sente ancora viva l’eredità dei Padri Pellegrini.
 Un romanzo da leggere e da conservare.

Voto: 8,5

domenica 19 febbraio 2017

William Finnegan, "Giorni selvaggi", 66th a2nd


 Libro vincitore del Premio Pulitzer nel 2016, Giorni selvaggi. Una vita sulle onde è l'autobiografia - rivisitata sotto il segno della passione per il surf - di William Finnegan, scrittore, giornalista del "New Yorker" e surfista di livello assoluto.
 E' raro che un libro che non conquista il lettore fin dalle prime pagine riesca alla fine ad appassionare visceralmente; eppure è proprio quello che è accaduto a me leggendo Giorni selvaggi.
 Questo è dovuto a una serie di fattori diversi: in primo luogo alla necessità di acquisire famigliarità con la terminologia tecnica di una disciplina della quale non sapevo quasi nulla (se non quel poco appreso guardando i più celebri tra i film che trattano del surf: da Un mercoledì da leoni a Point Break a Riding Giants), laddove si parla continuamente di swell (l'insieme dei treni d'onda che, succedendosi a intervalli regolari, costituiscono una mareggiata), di spot (un tratto di costa dove il fondale favorisce il generarsi di onde adatte a praticare il surf), di line up (il punto in cui il surfista si deve posizionare per "prendere" l'onda), di  take off  (il "decollo", il movimento con cui il surfista si alza sulla tavola e "prende" l'onda), di closeout (il fenomeno per cui un'onda "rompe" tutta in una volta, rendendo difficilissima la surfata), e si danno spesso per scontate le differenze tra beach break (uno spot costituito da secche e fondale sabbioso), point break (uno spot con fondale roccioso, in prossimità di una scogliera o di un promontorio) e reef break (uno spot in cui le onde si rompono in prossimità della barriera corallina); o quelle tra long board (la tavola molto lunga, di foggia classica, in uso fino alla seconda metà degli anni sessanta, particolarmente adatta a movimenti come il noseriding) e short (la tavola più corta e agile, adatta ai repentini cambi di direzione e a entrare nel tubo dell'onda; una sua evoluzione è rappresentata dalla gun, più lunga e più larga nella parte anteriore, pensata per le onde giganti).
 C'è poi il fatto che bisogna abituarsi allo stile di Finnegan, che si struttura su ampie volute, è distesamente descrittivo e sovente anche digressivo, ma nello stesso tempo sa essere rapsodico, e procedere per squarci, illuminazioni, lampi e improvvisi cambiamenti di rotta.
 Infine occorre ricordare che le prime cento pagine del libro sono dedicate all'infanzia e all'adolescenza del protagonista; età che, essendo un po' per tutti - per definizione - "selvagge", danno luogo a una narrazione interessante e anche brillante, ma certo meno originale di quella in cui si sostanzia tutta la parte successiva del testo.

William Finnegan in un recente ritratto fotografico

 William Finnegan nacque nel 1952 e visse i primi anni della sua vita in California dove - pur non abitando sul mare - imparò a fare surf seguendo l'esempio di alcuni compagni di scuola e amici di famiglia (soprattutto i Becket, che abitavano a Newport Beach), nei weekend e nel tempo libero.
 L'esperienza decisiva che rese il surf il baricentro della sua vita, però, fu il biennio passato con la famiglia alle Hawaii, fra il 1966 e il 1967. A Honolulu, il giovane William frequentò la Kaimuki Intermediate School, la scuola dei nativi, fucina di "teppisti, tossicomani e sottoccupati", assai diversa dalle efficientissime scuole pubbliche californiane: quando, anni dopo, Finnegan confiderà durante un'intervista a Barack Obama (che, cresciuto alle Hawaii, frequentò la migliore delle scuole private dell'arcipelago, nonostante la sua famiglia non fosse particolarmente abbiente) di essere andato alla Kaimuki, questi sgranerà gli occhi incredulo. Se quei due anni non contribuirono in maniera particolare ad approfondire la competenza di William riguardo alla letteratura inglese, gli permisero comunque di entrare in contatto e di confrontarsi con alcuni dei migliori giovani surfisti delle Hawaii (dove il surf nacque e dove, un tempo, era trattato alla stregua di un rito religioso), di conoscere gli spot più celebri del surf di allora e di affinare la sua tecnica e il suo stile.
 Non a caso, in una narrazione che procede sempre in ordine cronologico, il periodo hawaiano viene anticipato, e proprio con esso si apre il libro, prima di tornare alla California e all'esistenza della famiglia Finnegan (di origine irlandese e, in quanto tale, cattolica) negli anni cinquanta - con il padre che produceva per l'esercito quei documentari che, successivamente, lo porteranno alla Hawaii -, e da lì proseguire con maggiore linearità.
 Il racconto delle diverse epoche che si succedono nella vita di William è caratterizzato dalla presenza di poche variabili - sempre le stesse - sul cui mutamento è imperniata la progressione narrativa. Ogni periodo finisce così per modellare la propria fisionomia sugli spot in cui il protagonista pratica il surf, sull'amico che lo accompagna nel corso delle sue scorribande surfistiche, e sulla donna - la fidanzata o la compagna - che costituisce per lui un punto di riferimento (spesso pur essendo fisicamente lontana) in quella stagione della vita.
 I barbarian days propriamente detti cominciano quando William, dopo aver conseguito la laurea e dopo aver lavorato per un breve periodo come frenatore per le ferrovie della Southern Pacific, parte all'avventura con l'amico Bryan Di Salvatore alla ricerca di tutte le onde migliori del Pacifico, con il segreto proposito di completare il giro del mondo procedendo sempre verso ovest. Con pochi soldi in tasca (i due si manterranno spesso facendo i lavori più disparati), una grande curiosità e uno spirito di adattamento fuori dal comune, Finnegan e Di Salvatore, dopo le Hawaii, toccheranno varie località a Guam, alle Samoa, a Tonga, alle Figi, in Australia (facendo il periplo della grande isola, dopo diversi mesi passati a Kirra, nel Queensland), in Indonesia, occupandosi per la maggior parte del tempo di surf e dei rispettivi progetti letterari. Alle Figi, presso l'isoletta di Tavarua, William e Bryan scopriranno "la migliore onda del mondo", stringendo poi un patto per tenere segreto quello spot ed evitare l'assalto dei turisti (non servirà: pochi anni dopo, a Tavarua verrà aperto un resort esclusivo per surfisti danarosi...).

Bryan Di Salvatore e William Finnegan a Kirra (Australia) nel 1979, nella fotografia riportata sulla copertina dell'edizione americana di Barbarian Days

 Il viaggio (una sorta di ricerca dell'inverno infinito - perché, come ci tiene a specificare l'autore, a dispetto dell'iconografia ufficiale, è l'inverno e non l'estate la stagione migliore per fare surf) durerà quasi tre anni, fino al 1980, e sarà interrotto solo dalla malattia di William, ridotto in fin di vita dalla malaria (ma finalmente con la fidanzata Sharon accanto).
 Rimessosi fortunatamente dal duro colpo alla sua salute, Finnegan riprenderà il viaggio (nonostante il ritorno in America di Bryan Di Salvatore), fermandosi però presto in Sudafrica dove, a Cape Town - in pieno regime di apartheid -, comincerà a insegnare in una scuola frequentata dai ragazzi di colore. Si può dire che in Sudafrica William Finnegan completi la sua maturazione politica e personale, senza però rinunciare al surf, che continuerà ad essere uno dei centri di gravità della sua esistenza.
 Dopo alcuni anni passati in Sudafrica, dedicati allo sport e all'insegnamento, in seguito alla fine della storia con Sharon, William tornerà in California e si stabilirà a San Francisco. Qui comincerà la nuova professione di giornalista, inizierà la sua relazione con Caroline (una giovane artista di origine rodhesiana, destinata a diventare un avvocato di successo e la moglie dell'autore) e, soprattutto, scoprirà nuovi fantastici spot per fare surf non lontano dalla città, e nuovi insostituibili compagni con cui esplorare la costa (in particolare Mark Renneker, medico bohémien e specialista nel cavalcare onde di dimensioni spropositate).
 Da San Francisco, Finnegan si trasferirà a New York nella seconda metà degli anni ottanta, diventerà inviato speciale del "New Yorker" nelle zone di guerra, e continuerà a fare surf ogni volta che gli sarà possibile, questa volta a fianco di Peter Spacek, con il quale, negli anni novanta, scoprirà Madeira (in particolare Jardim do Mar) destinata a diventare la nuova Mecca dei surfisti di tutto il mondo.
 L'ultimo inseparabile partner sportivo di Finnegan, negli anni Duemila, è John Selya, danzatore dell'Upper West Side, raffinato surfista e profondo conoscitore di tutti gli spot di Long Beach; in una stagione della vita in cui la prestanza atletica decade inesorabilmente, William comincia a vivere il surf con una consapevolezza nuova, assaporando ogni momento con un'intensità quasi mistica.
 A conti fatti, il bello di questo libro è che passione e disincanto razionale procedono di pari passo, e il secondo riesce a costituire la migliore cornice per esaltare la prima. Nel raccontare la storia del suo amore per un'attività capace spesso di reclamare le sue energie migliori, senza però per fortuna diventare mai davvero totalizzante, William Finnegan offre al lettore l'esempio più illuminante e la metafora meglio concepita per rappresentare la nostra inesauribile sete di vita, pur al cospetto di tutti i limiti che la vita palesa e di cui non possiamo non accorgerci.
 Tanto che la frase con cui si chiude il testo finisce per risultare assai più significativa di quanto possa sembrare a prima vista: "Volevo solo che non finisse mai".

Voto: 7,5  

domenica 12 febbraio 2017

Michele Mari, "Rosso Floyd", Einaudi


 In un periodo in cui, in Italia, la scrittura narrativa sembra dominata da un diffuso manierismo, per trovare opere caratterizzate da un tratto di autentica originalità tocca rivolgersi a quei pochi autori che portano avanti uno sperimentalismo letterario degno di questo nome; magari prediligendo, nella loro produzione, la qualità all’abbondanza.
 Per questo oggi ho deciso di parlare di uno dei miei scrittori preferiti, Michele Mari, presentando un libro da lui pubblicato nel 2010: Rosso Floyd.
 Mimando ironicamente il titolo di un libro di Roberto Calasso (Il rosa Tiepolo) pubblicato poco prima del suo, Mari reinterpreta in chiave fantastica e misterica la carriera dei Pink Floyd, il gruppo musicale che ha portato la musica psichedelica a toccare vertici altissimi, e che ha creato pezzi che ne hanno fatto la band forse più nobile della storia del rock.
 Il libro è impostato come un’inchiesta, o meglio un’istruttoria – coordinata da un giudice invisibile –, alla quale danno il loro contributo le voci di vari personaggi, celebri o sconosciuti, reali o immaginari, viventi o trapassati.
 Ciascuno di essi, con la propria testimonianza, con la propria confessione, con la propria lamentazione, con le proprie esortazioni o con i quesiti che pone, cerca di mettere a fuoco alcune questioni essenziali: da dove deriva l’irripetibile magia della musica dei Pink Floyd? Quale straordinaria amalgama ha portato a una fusione tanto perfetta di testi e musica, rendendoli capaci di mantenere i medesimi, inarrivabili standard anche quando gli autori dei pezzi cambiavano? Da dove provengono i sottili riferimenti culturali, i tic, gli scherzi, i polisemici appigli interpretativi che le loro canzoni presentano?

Michele Mari

 La tesi che sembra emergere dai tanti punti di vista e dalle tante opinioni che si sommano, si scontrano e si rincorrono è sbalorditiva, affascinante e inquietante al contempo: a ispirare tutta la produzione dei Pink Floyd sarebbe stato Syd Barrett, “diamante pazzo”, colui che fu l’anima del gruppo ai suoi esordi, ma ne fu in seguito escluso dopo aver perso la ragione, si dice, per via dell’abuso di acidi.
 Alla sua presenza-assenza i Pink Floyd ritornano continuamente nelle loro canzoni; a lui è palesemente dedicato il loro album capolavoro, Wish you were here, e la canzone capolavoro di quell’album, Shine on you crazy diamond; lui avrebbe guidato quasi telepaticamente David Gilmour e Roger Waters, i “gemelli siamesi” − il Lirico e il Musico dei Pink Floyd −, dettando loro, secondo le proprie inclinazioni, musica e testi. Altrimenti, come spiegare il fatto che l’immaginario dei Pink Floyd è rimasto, per oltre vent’anni dopo l’uscita di scena di Syd Barrett, puramente, incontestabilmente barrettiano?
 Nell'ottica di Mari, l'ipotesi impossibile, sconfinante nel paranormale, si trasforma infine in una visione tipicamente floydiana: due creature infernali, il "mostro fluido" e il "mostro rosa", unite in un unico corpo, che si tormentano, si azzannano, si graffiano reciprocamente, facendo scorrere un sangue che è passione e vita.

Voto: 8

domenica 5 febbraio 2017

Fernando Acitelli, "La solitudine dell'ala destra. Storia poetica del calcio mondiale", Einaudi


 L'epica ha sempre fatto parte del racconto delle imprese dei campioni sportivi, contribuendo non di rado in maniera decisiva a determinare la fortuna di questo o quell'atleta presso il pubblico, e la durata del suo mito nel tempo.
 Ciò che rende possibile l'innescarsi di un processo simile, naturalmente, è il fatto che lo sport rappresenta un rito collettivo ad alta partecipazione sociale, in cui ogni singolo gesto è passibile di una trasfigurazione simbolica.  
 In quest'ottica, talvolta capita persino che il racconto dei protagonisti dello sport e delle loro gesta travalichi i confini della cronaca effimera per sconfinare nei più nobili territori della letteratura. Perché questo avvenga, occorrono però almeno tre ingredienti: una storia e dei personaggi degni di nobilitazione letteraria, una penna capace di operare la magia, e un pubblico che ne sia testimone consapevole. 
 Negli ultimi anni tanti giornalisti, scrittori, autori televisivi hanno provato a rielaborare letterariamente vicende sportive a volte lontane nel tempo, a volte a noi molto vicine, con risultati in verità altalenanti. Paradossale è che l'esito dell'operazione è sembrato spesso deludente quando il tentativo ha riguardato lo sport da noi più popolare - il calcio e i suoi campioni - specie nei casi in cui ci si avvicinava molto all'età contemporanea.
 Da appassionato di sport in generale e di calcio in particolare (come la maggior parte degli italiani, del resto), mi sono chiesto perché questo avvenga: manca un pubblico sufficientemente consapevole, mancano autori abbastanza in gamba, o semplicemente il gioco del calcio, oggi, è incompatibile con la poesia, perché si è trasformato in uno show banale, ad alto tasso di spettacolarità ma a bassa gradazione di umanità, dove i migliori giocatori assomigliano alle maschere di un videogioco più che ad eroi in carne e ossa?
 E' difficile resistere alla tentazione di affermare che quest'ultima opzione pare la più plausibile; non tanto per colpa della presunta ottusità dei calciatori, quanto per la trivializzazione del contesto in cui essi operano. E' inutile girarci attorno: l'esasperazione di tutti quegli aspetti che rendono il calcio un florido business ha in parte obliterato il fascino del rito sportivo, e trasformato i calciatori in marchi commerciali o in piatte sagome d'ingombro.
 Certo, la realtà è sempre un po' più complessa di queste generalizzazioni. Eppure, mi è capitato di recente di rileggere una raccolta di poesie pubblicata da Fernando Acitelli quasi vent'anni fa, La solitudine dell'ala destra; e la gamma di emozioni suscitata dalla combinazione dei ritratti poetici dei calciatori vergati dall'autore, e dei miei personali ricordi è stata di una tale varietà e di una tale intensità da superare tutte quelle provate negli ultimi tempi guardando il calcio e leggendo di calcio.
 Ricordo che all'uscita del libro qualcuno scrisse felicemente che una delle cose migliori era l'indice posto in coda al testo: un lungo elenco di calciatori. E in effetti basta sgranare quel rosario di nomi per sentire qualcosa di simile a un moto di gioia mista a un pizzico di malinconia.
 La raccolta consta di 181 ritratti poetici di calciatori attivi tra gli anni venti e gli anni novanta del Novecento, divisi in sette sezioni: Prologo con pionieri (gli anni venti e trenta), Uscì piangendo dal Maracanà (i tardi anni quaranta e gli anni cinquanta), Bacio dorato alla Rimet (grossomodo gli anni sessanta), Lancio wagneriano (gli anni settanta), Alle spalle di Schumacher (gli anni ottanta), Si fa presto a dire Baggio (gli anni novanta) e, da ultimo, I sommersi salvati (dedicata a una serie di calciatori "minori" attivi per lo più tra gli anni settanta e i primi anni ottanta).
 Le poesie non sono tutte di livello altissimo: la metrica talvolta zoppica senza che vi siano motivi tematici o strutturali a giustificare un andamento scazonte; vi sono dei ritratti molto prosaici, che non rendono giustizia ai personaggi a cui sono dedicati, e versi (o intere strofe) che rappresentano delle vere e proprie stonature nel contesto in cui sono inseriti.

Fernando Acitelli

 Però vi sono anche componimenti che propongono formule capaci di attagliarsi alla perfezione al personaggio che designano, giri di frase in grado di coglierne l'essenza e di far scattare la scintilla della poesia vera; passi che risultano addirittura commoventi, quando sanno mettere a fuoco come mai prima l'immagine di calciatori che magari fanno parte dei nostri ricordi d'infanzia, o di cui abbiamo tanto sentito parlare senza mai vederli giocare, o che conosciamo soltanto di nome: figure che riemergono dalle nebbie del passato e che ci diventano subito care, in nome della passione per il gioco da una parte e dell'incisiva bellezza della parola scritta dall'altra.
 Penso all'oriundo argentino Luisito Monti (che Gianni Brera considerava il boia personale di Vittorio Pozzo) - "Centurione della Pampa" -; a Giampiero Combi (portiere della Juventus dei cinque scudetti e dell'Italia Campione del mondo nel 1934) - "Elogio delle ginocchiere" -; a Felice Levratto (grande ala sinistra del Vado e del Genoa, in grado, si diceva, di sfondare la rete con la potenza del suo tiro) - "Il tuo volto è puro / come quello d'un fattore / all'alba" -; a Renato Cesarini (che diede il nome alla famosa Zona Cesarini, con l'abitudine di fare gol negli ultimi minuti delle partite che disputava) - "sei un brivido elegante, / una festa che all'alba si fora, / il congedo e la risata in fumo / poco prima dei saluti" - ; a Silvio Piola - "Sorriso tardo-sabaudo: / civismo e lealtà / perfino nella capigliatura" -; al grande  portiere spagnolo Ricardo Zamora - "Surreale nel basco, / quasi salottiero in campo".
 Le poesie dedicate ai "classici" del nostro calcio si giovano spesso di frasi che, come in un bassorilievo, ne definiscono le caratteristiche in mirabili chiaroscuri: si veda Niels Liedholm - "Stoccate d'eleganza / dentro e fuori" -; Benito "Veleno" Lorenzi - "E' un sorriso proibizionista / che in roventi meriggi neroazzurri / vìola in fuga posti di blocco"; Giampiero Boniperti - "il cui volto / nulla aveva dell'emigrante, / sì invero d'un cantore secentesco" -; Pelé - "Equivoco metafisico, / impensabile corredo / cromosomico"; Omar Sivori - "Irridi il mediano, il tornante, / il mastino, il terzino; / rendi ischemico il portiere / e in rete appoggi il pallone" -; Bobby Moore - "studente liceale / conscio di grammatica / e atti puri" -; Bobby Charlton - "Impegnato ad accudire / il riporto dei capelli, / a custodire la soave cupola / delle magistrali inzuccate / a rete" -; George Best - "Basetta sassone, / palleggio virile, / pirata numero undici" -; Luisito Suarez - "Nato trentenne / e ben scriminato / pur in una chioma / a inganno" -; Tarcisio Burgnich - "Cappellano militare. // Prodigioso ora et labora / negli stadi del mondo" -; Jair - "In notturna / il contropiede / è da Hitchcock" -; Mario Corso - "Inceneritore d'Accademie" -; Giacinto Facchetti - "Etica dell'alpino. // Profilo intarsiato / nei rifugi dolomitici" -; Giacomo Bulgarelli - "Sorriso da fuoriclasse" -; Giancarlo De Sisti - "Generoso e leale, / volto di sincerità" -; Gigi Meroni - "quadretti felici di gol in fuga" -; José Altafini - "Veterano che in disincanto segna".
 Molti dei pezzi migliori sono dedicati ai campioni degli anni settanta e ottanta: qui il bassorilievo tende a definirsi ancora meglio, a diventare addirittura scultura a tutto tondo, o a evolversi in azione animata. Possiamo citare Gigi Riva - "Copia romana / d'eroe greco, / allineato in sale / pompeiane accanto / a dèi propizi. // In dono a te fu data / la saetta e la forza / nei vortici di sfida" -; Roberto Boninsegna (per lui, davvero, una delle poesie più belle) - "Gringo da duello al sole. / Volto poco raccomandabile / ma bello. // Caos d'irripetibile centravanti: / grintoso, furioso, estroso, / litigioso. Nessuno temevi, / neppure fuori casa. // In acrobazia vedevamo in te / un angelo del Masaccio / annunciante doni" -; Berti Vogts - "Celtico nano, figlio d'oste / e garzoncella in scorci luterani: / sputi rabbia sul pallone / e lo spizzi centrando la tibia" -; Franz Beckenbauer - "Godi alla visione / estetizzante / e al tuo lancio / wagneriano" -; Gerd Muller - "da homo erectus, spizzando / segnavi tra folle di terzini" -; Johann Cruijff - "Colonizzatore / di vaste metà campo / di aree di rigore / altrui e proprie" -; Paolo Sollier (uno dei Sommersi salvati) - "Triste come un consiglio di fabbrica / in un pomeriggio d'inverno, / tra un palleggio e un collettivo politico / sogni dittature proletarie e coi gol / richiami alla lotta di classe" -; Grzegorz Lato - "Esteticamente riferibile / a partite tra villeggianti. // La scorza della precarietà / lievemente riscattata / dalla velocità" -; Daniel Alberto Passarella - "Un tenente che sa quel che vuole / in una cricca sudamericana" -; Romeo Benetti - "Grand'ufficiale finito male, / pensieroso tra i carriaggi a Jena, / sotto urla insanguinate / e dettature a voce alta" -; Vincenzo D'Amico - "Vincenzo D'Amico / è un quadernetto / di trenta grandi poesie / scritte a vent'anni" -; Luciano Chiarugi - "La catenina seguiva / le onde dei dribbling".
 E ancora: Lionello Manfredonia - "Antico romano, / sangue della decadenza, / leale per crudeltà, / vegli ogni lembo di territorio, / dai marmi del Senato ai confini dell'Impero, / e ti disponi al sacrificio" -; Bruno Conti - "Una secentesca beffa ai regnanti / con tanto di schioppo e ferita" -; Paolo Rossi - "Monello del Collodi, / eterno oratoriale bimbo, / emigrato a genio / nel soffio d'una estate" -; Giancarlo Antognoni - "Figliolo di città-fazione, / d'un campanile ricco di notari, / messeri, pictori et speziali" -; Leovegildo Junior - "Volto da pastore metodista" -; Tonino Cerezo - "Ciondolante, assonnato / come un proprietario terriero / sotto il capanno" -; Paulo Roberto Falcao - "Mitraico di culto, poi cristiano / quindi di nuovo mitraico".
 Per gli assi dei tardi anni ottanta e degli anni novanta, i ritratti sono compendiati da versi come graffi o pennellate: come per Marco Van Basten - "Avventuroso pilota della RAF, / gioioso dopo incursioni / sulla Manica" -; per Ruud Gullit - "Adagiato su botti di rum, / in uno scorcio di '700, / con agilità e bellezza in posa / sei lo spot nel Mar delle Antille" -; per Roberto Mancini - "Ufficialetto napoleonico, / abilitato ai colpi di tacco / e alle risse portuali" -; per Salvatore Schillaci - "Sbucato da una novella / del Verga, giustizia chiedi / con la verità negli occhi" -; per Billy Costacurta - "fosti il prototipo / della bellezza aziendale, / cattiveria mista / a solidarietà after-shave" -; per Dejan Savicevic - "Slava tradizione orale" -; per Zvonimir Boban - "Volto di Tolstoj giovane, / mite ufficiale a Sebastopoli" -; per Alexi Lalas - "In quel socialismo / tutto americano / che sa coniugare / NBA e Carlo Marx, / I WANT YOU FOR THE ARMY / e Nashville, tu, estetico / vagabondi per il mondo" -; per Abel Balbo - "Alla Corte estense / o anche medicea / un viso così sarebbe quello / d'un pittore" -; per Alessandro Del Piero - "Bimbo febbricitante, protetto / in dorate stanze da doni paterni / e balocchi".
 La magia fiorisce quando una poesia non solo racchiude l'essenza del personaggio che descrive, ma lo proietta anche su uno sfondo inatteso, facendone meglio spiccare i contorni, e aggiungendo qualcosa di nuovo e originale al suo inquadramento estetico: accade ad esempio per l'indimenticabile Gaetano Scirea - "Gentiluomo ottocentesco / nobile del Lombardo-Veneto / in quegli ovali dei tempi / del Pellico, tra vendite / carbonare e finte sabaude. // Compostezza del Balbo. // Nitide righe d'amanuense, / le tue geometrie. // Copernicano e umanista. // La tua lealtà riluce / pur quando gli assedianti / in crudeltà eccedono." -; e anche per Klaus Augenthaler - "Fuoriuscito dalla Guerra dei Trent'anni, /  t'allineasti su sentieri di sbronza / a fronteggiar agguati palatini, / brandeburghesi, protestanti, cattolici / e della marca luterana. // Nei tornei d'Europa / il tuo volto / fu l'effigie del saccheggio, / l'alito dello stupro. // Era sui cross dal fondo / che rammentandoti dei lanzichenecchi / ponevi a ferro e fuoco l'inoffensivo / bargello".
 La poesia più bella in assoluto, però, per me è quella dedicata a Roberto Bettega:

Bettega è l'inverno
che va in gol.

E' la neve al derby
e il gol di tacco a Cudicini
(guardando la televisione
a sinistra).

Bettega è la maglia azzurra
senza fronzoli: numeri in eccesso,
nomi, cognomi. Vedremo pure
il codice fiscale?

Bettega è la maglia azzurra:
le braccia conserte nella foto
di gruppo.

Voto: 7