domenica 19 febbraio 2017

William Finnegan, "Giorni selvaggi", 66th a2nd


 Libro vincitore del Premio Pulitzer nel 2016, Giorni selvaggi. Una vita sulle onde è l'autobiografia - rivisitata sotto il segno della passione per il surf - di William Finnegan, scrittore, giornalista del "New Yorker" e surfista di livello assoluto.
 E' raro che un libro che non conquista il lettore fin dalle prime pagine riesca alla fine ad appassionare visceralmente; eppure è proprio quello che è accaduto a me leggendo Giorni selvaggi.
 Questo è dovuto a una serie di fattori diversi: in primo luogo alla necessità di acquisire famigliarità con la terminologia tecnica di una disciplina della quale non sapevo quasi nulla (se non quel poco appreso guardando i più celebri tra i film che trattano del surf: da Un mercoledì da leoni a Point Break a Riding Giants), laddove si parla continuamente di swell (l'insieme dei treni d'onda che, succedendosi a intervalli regolari, costituiscono una mareggiata), di spot (un tratto di costa dove il fondale favorisce il generarsi di onde adatte a praticare il surf), di line up (il punto in cui il surfista si deve posizionare per "prendere" l'onda), di  take off  (il "decollo", il movimento con cui il surfista si alza sulla tavola e "prende" l'onda), di closeout (il fenomeno per cui un'onda "rompe" tutta in una volta, rendendo difficilissima la surfata), e si danno spesso per scontate le differenze tra beach break (uno spot costituito da secche e fondale sabbioso), point break (uno spot con fondale roccioso, in prossimità di una scogliera o di un promontorio) e reef break (uno spot in cui le onde si rompono in prossimità della barriera corallina); o quelle tra long board (la tavola molto lunga, di foggia classica, in uso fino alla seconda metà degli anni sessanta, particolarmente adatta a movimenti come il noseriding) e short (la tavola più corta e agile, adatta ai repentini cambi di direzione e a entrare nel tubo dell'onda; una sua evoluzione è rappresentata dalla gun, più lunga e più larga nella parte anteriore, pensata per le onde giganti).
 C'è poi il fatto che bisogna abituarsi allo stile di Finnegan, che si struttura su ampie volute, è distesamente descrittivo e sovente anche digressivo, ma nello stesso tempo sa essere rapsodico, e procedere per squarci, illuminazioni, lampi e improvvisi cambiamenti di rotta.
 Infine occorre ricordare che le prime cento pagine del libro sono dedicate all'infanzia e all'adolescenza del protagonista; età che, essendo un po' per tutti - per definizione - "selvagge", danno luogo a una narrazione interessante e anche brillante, ma certo meno originale di quella in cui si sostanzia tutta la parte successiva del testo.

William Finnegan in un recente ritratto fotografico

 William Finnegan nacque nel 1952 e visse i primi anni della sua vita in California dove - pur non abitando sul mare - imparò a fare surf seguendo l'esempio di alcuni compagni di scuola e amici di famiglia (soprattutto i Becket, che abitavano a Newport Beach), nei weekend e nel tempo libero.
 L'esperienza decisiva che rese il surf il baricentro della sua vita, però, fu il biennio passato con la famiglia alle Hawaii, fra il 1966 e il 1967. A Honolulu, il giovane William frequentò la Kaimuki Intermediate School, la scuola dei nativi, fucina di "teppisti, tossicomani e sottoccupati", assai diversa dalle efficientissime scuole pubbliche californiane: quando, anni dopo, Finnegan confiderà durante un'intervista a Barack Obama (che, cresciuto alle Hawaii, frequentò la migliore delle scuole private dell'arcipelago, nonostante la sua famiglia non fosse particolarmente abbiente) di essere andato alla Kaimuki, questi sgranerà gli occhi incredulo. Se quei due anni non contribuirono in maniera particolare ad approfondire la competenza di William riguardo alla letteratura inglese, gli permisero comunque di entrare in contatto e di confrontarsi con alcuni dei migliori giovani surfisti delle Hawaii (dove il surf nacque e dove, un tempo, era trattato alla stregua di un rito religioso), di conoscere gli spot più celebri del surf di allora e di affinare la sua tecnica e il suo stile.
 Non a caso, in una narrazione che procede sempre in ordine cronologico, il periodo hawaiano viene anticipato, e proprio con esso si apre il libro, prima di tornare alla California e all'esistenza della famiglia Finnegan (di origine irlandese e, in quanto tale, cattolica) negli anni cinquanta - con il padre che produceva per l'esercito quei documentari che, successivamente, lo porteranno alla Hawaii -, e da lì proseguire con maggiore linearità.
 Il racconto delle diverse epoche che si succedono nella vita di William è caratterizzato dalla presenza di poche variabili - sempre le stesse - sul cui mutamento è imperniata la progressione narrativa. Ogni periodo finisce così per modellare la propria fisionomia sugli spot in cui il protagonista pratica il surf, sull'amico che lo accompagna nel corso delle sue scorribande surfistiche, e sulla donna - la fidanzata o la compagna - che costituisce per lui un punto di riferimento (spesso pur essendo fisicamente lontana) in quella stagione della vita.
 I barbarian days propriamente detti cominciano quando William, dopo aver conseguito la laurea e dopo aver lavorato per un breve periodo come frenatore per le ferrovie della Southern Pacific, parte all'avventura con l'amico Bryan Di Salvatore alla ricerca di tutte le onde migliori del Pacifico, con il segreto proposito di completare il giro del mondo procedendo sempre verso ovest. Con pochi soldi in tasca (i due si manterranno spesso facendo i lavori più disparati), una grande curiosità e uno spirito di adattamento fuori dal comune, Finnegan e Di Salvatore, dopo le Hawaii, toccheranno varie località a Guam, alle Samoa, a Tonga, alle Figi, in Australia (facendo il periplo della grande isola, dopo diversi mesi passati a Kirra, nel Queensland), in Indonesia, occupandosi per la maggior parte del tempo di surf e dei rispettivi progetti letterari. Alle Figi, presso l'isoletta di Tavarua, William e Bryan scopriranno "la migliore onda del mondo", stringendo poi un patto per tenere segreto quello spot ed evitare l'assalto dei turisti (non servirà: pochi anni dopo, a Tavarua verrà aperto un resort esclusivo per surfisti danarosi...).

Bryan Di Salvatore e William Finnegan a Kirra (Australia) nel 1979, nella fotografia riportata sulla copertina dell'edizione americana di Barbarian Days

 Il viaggio (una sorta di ricerca dell'inverno infinito - perché, come ci tiene a specificare l'autore, a dispetto dell'iconografia ufficiale, è l'inverno e non l'estate la stagione migliore per fare surf) durerà quasi tre anni, fino al 1980, e sarà interrotto solo dalla malattia di William, ridotto in fin di vita dalla malaria (ma finalmente con la fidanzata Sharon accanto).
 Rimessosi fortunatamente dal duro colpo alla sua salute, Finnegan riprenderà il viaggio (nonostante il ritorno in America di Bryan Di Salvatore), fermandosi però presto in Sudafrica dove, a Cape Town - in pieno regime di apartheid -, comincerà a insegnare in una scuola frequentata dai ragazzi di colore. Si può dire che in Sudafrica William Finnegan completi la sua maturazione politica e personale, senza però rinunciare al surf, che continuerà ad essere uno dei centri di gravità della sua esistenza.
 Dopo alcuni anni passati in Sudafrica, dedicati allo sport e all'insegnamento, in seguito alla fine della storia con Sharon, William tornerà in California e si stabilirà a San Francisco. Qui comincerà la nuova professione di giornalista, inizierà la sua relazione con Caroline (una giovane artista di origine rodhesiana, destinata a diventare un avvocato di successo e la moglie dell'autore) e, soprattutto, scoprirà nuovi fantastici spot per fare surf non lontano dalla città, e nuovi insostituibili compagni con cui esplorare la costa (in particolare Mark Renneker, medico bohémien e specialista nel cavalcare onde di dimensioni spropositate).
 Da San Francisco, Finnegan si trasferirà a New York nella seconda metà degli anni ottanta, diventerà inviato speciale del "New Yorker" nelle zone di guerra, e continuerà a fare surf ogni volta che gli sarà possibile, questa volta a fianco di Peter Spacek, con il quale, negli anni novanta, scoprirà Madeira (in particolare Jardim do Mar) destinata a diventare la nuova Mecca dei surfisti di tutto il mondo.
 L'ultimo inseparabile partner sportivo di Finnegan, negli anni Duemila, è John Selya, danzatore dell'Upper West Side, raffinato surfista e profondo conoscitore di tutti gli spot di Long Beach; in una stagione della vita in cui la prestanza atletica decade inesorabilmente, William comincia a vivere il surf con una consapevolezza nuova, assaporando ogni momento con un'intensità quasi mistica.
 A conti fatti, il bello di questo libro è che passione e disincanto razionale procedono di pari passo, e il secondo riesce a costituire la migliore cornice per esaltare la prima. Nel raccontare la storia del suo amore per un'attività capace spesso di reclamare le sue energie migliori, senza però per fortuna diventare mai davvero totalizzante, William Finnegan offre al lettore l'esempio più illuminante e la metafora meglio concepita per rappresentare la nostra inesauribile sete di vita, pur al cospetto di tutti i limiti che la vita palesa e di cui non possiamo non accorgerci.
 Tanto che la frase con cui si chiude il testo finisce per risultare assai più significativa di quanto possa sembrare a prima vista: "Volevo solo che non finisse mai".

Voto: 7,5  

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