L’attesissimo film Everest,
deputato all’apertura della settantaduesima Mostra internazionale d’arte cinematografica
a Venezia, consta della spettacolare ricostruzione della terribile tragedia
avvenuta sul monte Everest tra i 10 e l’11 maggio 1996, quando otto persone legate
a due diverse spedizioni morirono sorprese da una bufera di neve nel tentativo
di raggiungere la vetta della montagna più alta del pianeta – o di
ridiscendervi dopo essere saliti.
Numerosi libri sono stati scritti dai protagonisti
sopravvissuti agli eventi di quel tragico maggio, e ad essi gli autori della
pellicola cinematografica si sono inevitabilmente ispirati. I tre più
interessanti – nuovamente in libreria proprio in occasione dell’uscita del film
– sono quelli del giornalista-scalatore Jon Krakauer, della guida russo-kazaka
Anatoli Bukreev e del medico americano Beck Weathers, quest’ultimo rocambolescamente
sopravvissuto al disastro dopo essere già stato dato per morto, seppur a prezzo
dell’amputazione del braccio destro e di una serie di altri danni permanenti.
1) Il celebre Aria
sottile di Krakauer, diventato rapidamente uno dei classici della letteratura
alpinistica, oltre a essere un libro estremamente appassionante, è dei tre
senz’altro il più rilevante dal punto di vista letterario perché è quello
scritto meglio e perché è il più scrupoloso nella restituzione della realtà dei
fatti come effettivamente avvennero. Ha inoltre un merito: quello di aver
spostato per la prima volta l’attenzione della comunità alpinistica, e del
mondo dei media più in generale, sui rischi insiti nelle cosiddette “spedizioni
commerciali”, che dietro il pagamento di somme anche molto ingenti si
incaricano di accompagnare sulle montagne himalayane clienti assai danarosi ma
spesso privi di un’adeguata preparazione a scalate tanto impegnative.
Krakauer, nella costruzione della trama del suo libro,
procede con un’ampia manovra di avvicinamento ai fatti che costituiscono il
cuore del racconto: infatti, dopo aver descritto sulla base della sua personale
esperienza la strana sensazione che prova uno scalatore quando giunge sulla
cima dell’Everest – normalmente lo stato di ipossia e la fatica della salita
non gli lasciano neppure l’energia necessaria per concentrarsi sull’unicità del
grandioso spettacolo che gli si presenta davanti agli occhi, o anche solo per
provare un’emozione che non sia in qualche modo “astratta” –, si sofferma sulla
narrazione di come nacque e maturò la sua passione per l’alpinismo e per
l’avventura, e ripercorre i momenti essenziali della storia alpinistica del
monte Everest.
A Krakauer si presentò l’occasione di scalare l’Everest al
seguito della spedizione organizzata dal neozelandese Rob Hall grazie al suo
lavoro di inviato per rivista Outside; nonostante egli, avendo nutrito velleità
di scalatore “estremo” e di “esploratore”, guardasse con un certo snobismo
all’alpinismo d’alta quota, praticato spesso da individui interessati
semplicemente a riempire il proprio carnet di nuove conquiste, e non a
sviluppare un rapporto più profondo e particolare con la montagna e con
l’ambiente naturale, la prospettiva di salire sul tetto del mondo risvegliò in
lui un entusiasmo antico, simile a quello di un ragazzino. La descrizione della
fase preparatoria della spedizione, della marcia di avvicinamento al campo
base, dei personaggi che facevano parte dei diversi gruppi che ambivano a
salire sull’Everest vibra di questo entusiasmo.
Quando si giunge al resoconto della tragedia vera e propria,
però, l’approccio di Krakauer muta e si sdoppia; al racconto colmo di pathos
dei momenti più drammatici della catastrofe (terribilmente commovente risulta
l’estremo saluto che Rob Hall morente, stremato e immobilizzato nei pressi
della cima, riuscì a mandare via radio a sua moglie incinta in Nuova Zelanda
grazie a un collegamento satellitare, mentre molti scalatori sintonizzati sulle
stesse frequenze ascoltavano in silenzio) si incrocia l’esigenza di chiarirne fino in fondo le cause e di capire
se vi furono specifiche responsabilità che concorsero nel determinare quello
che avvenne. Le tecniche proprie della narrativa d’avventura si fondono così
con quelle dell’inchiesta giornalistica: l’autore, pur essendo testimone
diretto, non si accontenta del proprio limitato punto di vista, ma raccoglie a
posteriori il contributo di tutti coloro che assistettero a ciò che accadde o a
diverso titolo ne furono protagonisti. Il confronto dei diversi punti di vista
è reso indispensabile da un elemento oggettivo: le difficoltà che l’organismo
umano incontra sopra quota 8000 alterano la percezione individuale della
realtà, rendendo inaffidabili i ricordi di menti altrimenti lucidissime.
Ne esce un quadro piuttosto completo dei fatti di quei
giorni, grazie al quale – sebbene Krakauer si mostri prudente
nell’esprimere giudizi e complessivamente restio ad emettere verdetti – il
lettore riesce a farsi un’idea abbastanza precisa di quali furono le dinamiche
che portarono alla morte di otto persone.
Alcuni degli scalatori coinvolti nella tragedia del 1996 fotografati mentre, il pomeriggio del 10 maggio, affrontano la discesa prima dell'arrivo della bufera
2) Diverso è lo spirito del libro di Anatoli Bukreev, il
forte scalatore russo che scomparve a sua volta travolto da una valanga
sull’Annapurna nel dicembre 1997, circa un anno e mezzo dopo i fatti
dell’Everest.
In sostanza, Krakauer accusa Bukreev di essere venuto meno ai
suoi doveri di guida in una delle fasi cruciali della salita all’Everest,
preoccupandosi più della propria performance sportiva (resa notevole dalla
scelta di fare a meno delle bombole d’ossigeno) che dell’incolumità dei clienti
aggregati al gruppo Mountain Madness di Scott Fischer, per il quale Bukreev
lavorava; Everest 1996 si configura dunque come una risposta alle tesi di Aria sottile.
Bukreev, in realtà, non smentisce la ricostruzione dei fatti
di Krakauer; semplicemente, gli oppone una differente filosofia della montagna,
una differente concezione del mestiere di guida, una diversa visione della
nozione stessa di responsabilità: e questo è forse l’aspetto più interessante
del libro dell’alpinista russo.
Per Bukreev, cresciuto alla grande scuola alpinistica
sovietica, ciascuno in montagna deve saper agire in autonomia e rendersi conto
di dove è personalmente in grado di arrivare. Compito della guida, dunque, non
è quello di condurre i suoi assistiti al di là del punto che possono raggiungere
da soli; semmai è quello di dare l’esempio e di intervenire nel momento in un
qualcuno si trovi chiaramente in pericolo di vita.
Fedele a questo modo di intendere il proprio dovere, Anatoli
Bukreev non si preoccupò di assistere gli altri scalatori mentre salivano verso
la vetta, né mentre effettuavano la discesa; ma non esitò a uscire dalla
propria tenda in piena bufera quando già era ridisceso dalla cima e a rischiare
la propria vita per salvare da morte certa molti componenti della propria
squadra in difficoltà sulla cresta sud, con quello che non si può non definire
uno straordinario gesto di eroismo.
Detto questo, la prospettiva con cui vengono narrati gli
eventi in Everest 1996 resta assi più
angusta di quella adottata in Aria
sottile.
Beck Weathers torna a casa dopo il suo salvataggio, con entrambe le mani fasciate e, sul volto, i terribili segni lasciati dal congelamento
3) Esce dall’ambito prettamente alpinistico la versione della
vicenda fornita da Beck Weathers (una delle figure sulle quali nel film pare
che ci si soffermi più a lungo), medico texano che visse sull’Everest
l’irripetibile esperienza di un ritorno alla vita quando era già stato dato per
morto: sfinito e congelato, nell’impossibilità di essere trasportato al campo
IV (posto sul colle sud), presso il quale si trovavano le prime tende, Weathers
fu abbandonato sull’Everest, e passò due notti senza bere e senza mangiare
oltre quota 8000, in quella che viene comunemente definita “la zona della
morte”, perché nessuno può rimanervi a lungo senza andare incontro
all’esaurimento fisico. Miracolosamente ripresosi, riuscì a trascinarsi fino
alle tende dei compagni, nonostante una maschera di ghiaccio spessa otto
centimetri che gli copriva il viso; fu poi aiutato dai membri di un’altra
spedizione – guidata da Ed Viesturs – a scendere fino a quota seimila dove, con
un nuovo atto di eroismo, un elicotterista nepalese venne a prelevarlo laddove
qualsiasi velivolo fatica a sostenersi in volo a causa dell’aria troppo
rarefatta.
Il libro di Weathers racconta come l’avventura sull’Everest
segnò per questo medico ossessionato dall’esigenza di tentare di raggiungere
mete sempre più ambiziose una svolta positiva, nonostante le gravi mutilazioni
subite; tornato a casa, infatti, Beck Weathers riuscì a superare la depressione
che lo affliggeva da sempre, riscoprì il valore della famiglia e l’affetto dei
propri cari, e poté a salvare il proprio matrimonio, che pareva giunto ormai al
capolinea: in altre parole, divenne un uomo migliore.
A un soffio dalla fine è costruito attraverso l’alternarsi
della voce narrante del protagonista con quella della moglie, dei figli e di
alcuni amici che gli fanno da “controcanto”, come avviene in certi documentari
televisivi, e si dilunga sugli antefatti – la vita di Beck prima del 1996 – e
sulle conseguenze di tutto quello che gli capitò.
In questo caso l’interesse per il lettore sta tutto nella
presentazione “in soggettiva” di ciò che il protagonista-narratore si trovò suo
malgrado a vivere e nella restituzione della sua particolare personalità.
Aria sottile voto 7,5
Everest 1996 voto 5,5
A un soffio dalla fine voto 6 -