Sul risvolto di copertina del libro si legge: “Dai primi
romanzi di Paolo Volponi nessuno è riuscito a entrare in fabbrica con la potenza, il nitore, la stupefazione di
Stefano Valenti, e quello che sembra un mondo perduto torna come il rimosso
infinito della sopraffazione”.
È stato proprio il richiamo a Paolo Volponi a convincermi a
leggere questo libro: un po’ per ragioni sentimentali, perché all’opera di Volponi
ho dedicato la mia tesi di laurea; un po’ perché piuttosto rari, nel panorama
letterario italiano, sono i romanzi volti a descrivere la realtà produttiva, il
mondo del lavoro, e in particolare il mondo del lavoro industriale.
In Volponi sono soprattutto due le opere narrative
focalizzate sulla realtà industriale: il romanzo d’esordio, Memoriale, pubblicato nel 1962, che vede
come protagonista un giovane operaio affetto da disturbi psichici, che guarda all’ingresso
in fabbrica come alla giusta via per poter guarire dalla malattia trovando un
suo equilibrio, ma le cui speranze vengono frustrate dall’impossibilità di dare
un senso al proprio lavoro e di ricondurre alla natura i ritmi con i quali esso
è vissuto; e Le mosche del capitale,
pubblicato nel 1989, in cui il protagonista è invece un manager che vorrebbe
trasformare l’industria in una realtà capace di produrre benessere, bellezza e
armonia per tutti, ma finisce per esser emarginato dalla miopia di dirigenti d’azienda
incapaci di uscire dalla logica della massimizzazione dei profitti tipica del
capitalismo classico.
Il pensiero di Volponi si pone nel solco di una certa
versione del marxismo e assume una prospettiva che possiamo chiamare
progressista: l’industria e le innovazioni che porta con sé hanno una carica
intrinsecamente positiva; la fabbrica, i macchinari, il processo produttivo nel
mondo contemporaneo sono tanto affascinanti da meritare descrizioni ricche di
accenti lirici, come quelle che tradizionalmente si riservano ai più suggestivi
fenomeni naturali; è l’organizzazione sociale su cui è imperniata la gestione
dell’industria a richiedere un profondo intervento di riforma.
Nulla di tutto ciò in Stefano Valenti, per il quale la
fabbrica è simile in tutto e per tutto a un inferno.
La storia che viene raccontata da Valenti è quella del padre,
per anni operaio alle acciaierie Breda di Sesto San Giovanni, poi scappato dal
suo odiato lavoro e dalla fabbrica per tornare nella natia Valtellina e
dedicarsi stentatamente alla sua vera passione, diventata presto “occupazione”
indispensabile per vivere e respirare: la pittura.
La fuga risulta tuttavia tardiva: la prolungata esposizione
alla polvere d’amianto (proveniente dai grembiuli utilizzati per proteggersi
dal calore, e dalle coperte usate per avvolgere i tubi incandescenti, queste e
quelli presto sbrindellati) condanna l’uomo, come quasi tutti i suoi colleghi
di reparto, alla morte per mesotelioma pleurico.
Dei danni subiti dagli operai su un luogo di lavoro malsano
erano perfettamente consapevoli i dirigenti dell’azienda, che però, per contenere
i costi, non hanno mai preso gli opportuni provvedimenti (gli aspiratori sono
stati installati solo in alcuni punti della fabbrica e solo dopo anni di pressioni
da parte dei Sindacati); e tuttavia, quando viene celebrato il processo,
nessuno dei colpevoli paga per il male fatto.
Stefano Valenti
D’altra parte l’amianto è solo uno degli aspetti negativi
della fabbrica: la fabbrica svuota l’anima, costringendo l’operaio a gesti
sempre uguali e a un’attività irrelata col mondo esterno; la fabbrica genera
panico, imponendo turni del tutto innaturali e ritmi troppo serrati per essere,
alla lunga, sopportabili. In fabbrica neppure nascono amicizie, perché gli
operai non hanno tempo e modo di comunicare e di confrontarsi davvero, e
ciascuno è chiuso nel bozzolo della sua rabbia e della sua disperazione. E
tutte le descrizioni dell’acciaieria che vengono fornite in questo libro hanno
qualcosa di cupo e di allucinato.
Non solo: la rabbia, la disperazione, il panico si diffondono
come onde sonore persino all’esterno della fabbrica, invadono le strade, i
caseggiati, la stessa città di Milano, presentata talvolta come un’immensa
periferia di se stessa.
Anche l’autore appare pervaso dallo stesso panico di
cui è caduto preda il padre quando ha dovuto fuggire dalla fabbrica, e dallo
stesso odio indiscriminato per chi perpetua uno stato di cose capace di
generare solo ingiustizia, sfruttamento, depressione, disumana indifferenza per
tutto ciò che non si può tradurre in vantaggi produttivi.
Insomma, se Volponi contemplava la possibilità di un
mutamento della società capace di realizzare un’utopia positiva, nessuna
speranza è concepibile nel mondo di Valenti.
E se nessuna speranza è concepibile, la letteratura non serve
a denunciare le storture del mondo attuale per aiutare a immaginarne uno
migliore; serve solo a innalzare al cielo uno straziante urlo di dolore, a
spargere sulla fredda terra le testimonianze del proprio patimento, come le
ceneri del padre nel brullo paesaggio alpino.
Il risultato finale è l'assunzione di un'ottica che potremmo chiamare anarchica, tutta virata sulla critica negativa di ciò che è: un'ottica fortemente suggestiva, sicuramente coinvolgente, e con notevoli tratti di autenticità, ma inevitabilmente limitata e limitante in una prospettiva politico-filosofica.
Voto: 6
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