Il titolo di questa piccola
raccolta di poesie di Silvia Bre già di per sé dice molto, da una parte, sul tenore del libro,
dall'altra sullo stile e sulla poetica della sua autrice. Si tratta infatti di un titolo
polisemico: “la fine” sta ad indicare senza dubbio il termine, la conclusione,
ma nello stesso tempo rimanda al fine, vale a dire a uno scopo determinato; nel
contempo, l’arte che viene nominata designa in primo luogo la poesia ma, più in
generale, chiama in causa “l’arte del vivere”, ovvero la vita stessa. La fine di quest’arte può dunque
intendersi come la fine e insieme il fine della poesia, o come la fine e
contemporaneamente il fine della vita umana.
L’ambiguità o, per meglio dire,
l’intercambiabilità di questi termini proietta una sorta di luce stroboscopica
su tutti e 40 i componimenti presentati: la fine della vita, la morte, incombe
ineludibile su ogni nostro agire; e la poesia, metafora di tutto ciò che tenta
di essere comprensione e conservazione del mistero del vivere, diviene occasione
per costeggiare e corteggiare la morte, magari per scoprire che solo così si
può mettere davvero in rilievo, in negativo, l’essenza della vita (“chi lo
direbbe che a disegnarci vivi / basta un’ombra”).
Così, se il tema della morte
sembra prendere talvolta prepotentemente il sopravvento offrendo lo spunto per
coltivare fantasie quasi suicide (“Ti sto davanti forse / presto / stringimi / due
lacci intorno al collo”), mentre altre volte la magia del reale esaltata dalla
poesia tende a cancellare ogni pensiero cupo (“panorama montano, un mare di
reale / non si distingue nuvola da neve e gioia / dei loro nomi capitati
insieme”), le due spinte contrastanti riescono a trovare un equilibrio laddove
ci si rende conto che è la presenza stessa dell’uomo a donare alle cose il loro
statuto di realtà (“Se il nostro luogo è dove / il silenzioso guardarsi delle
cose / ha bisogno di noi / dire non è sapere, è l’altra via, / tutta fatale, d’essere”).
Silvia Bre
In questo modo, quella che sembra di primo
acchito una poesia improntata a un neotradizionalismo raffinato, dotato di
notevole compostezza ma di scarsa originalità (tanto nelle scelte lessicali
quanto in quelle metriche), si arricchisce di scatti e scarti, che ne
illuminano e ne scaldano le nitide arcate intellettuali, specie nel momento in
cui l’io poetante si arrende di fronte all’impotenza del proprio sforzo di
venire a capo del problema angoscioso della fine (“Questo poema è senza più
ragione / sta alla vita come le sta uno sguardo / che nel vedere intende essere
là // io mi sospendo e mi sostengo in questo / stare nel nome di”).
Un sentimento che pervade anche
la lirica finale, quella dedicata a Francesco Borromini e alla sua architettura,
la più lunga di tutta la raccolta; quasi che le ardite invenzioni di pietra
dell’artista fossero la traduzione materiale della tensione emotiva che anima
questi versi; quasi che dall’opera dell’architetto ticinese Silvia Bre avesse
tratto segreta ispirazione.
La poesia più bella? Forse
questa:
Anima, come ti fuma il tempo
tutta rapita dentro
una miseria più grande della mia
a tanto si riduce l’infinito
tu sapevi distinguere
i significati
ora servi a versare
questa verità nel nulla
e io sono il tuo cane che t'insegue.
Voto: 6
Voto: 6
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