domenica 10 gennaio 2016

Wu Ming,"L'invisibile ovunque", Einaudi


 Pur non riproponendo il collaudato schema del romanzo storico (già sperimentato in passato in numerose occasioni, cimentandosi con eventi chiave di epoche diverse), i quattro scrittori del collettivo Wu Ming si confrontano anche questa volta con la storia, calandosi nello scenario della Grande guerra, e lo fanno come sempre a modo loro; vale a dire, esplorando alcuni degli aspetti meno conosciuti e più particolari del periodo indagato, e assumendo una prospettiva inconsueta per provare a gettare una luce nuova e differente su quanto comunemente si ritiene già noto.
 Il libro si compone di quattro racconti che narrano le storie di quattro uomini coinvolti nel conflitto, e che dall’angosciosa trappola di una strategia militare che trasforma i soldati in mera carne da cannone cercano di trovare una via di fuga.
 Il primo racconto, il più “classico” dei quattro, ha come protagonista Adelmo Cantelli, giovanissimo contadino dell’Appennino bolognese che odia il lavoro nei campi – a cui lo costringe l’impoverimento della famiglia che fa seguito allo scoppio della guerra e alla partenza per il fronte del fratello maggiore – e ama solo la caccia, in libertà, nei suoi boschi.
 Così, la scelta di arruolarsi come volontario, sottraendosi al controllo dei genitori, è un primo paradossale tentativo di uscire dalle angustie in cui lo ha indotto la guerra stessa: per farsi mandare al fronte Adelmo è addirittura costretto a “barare” sulla sua ridottissima statura, che lo renderebbe riformabile.
 E quando si rende conto che la vita di trincea è solo un’altra prigione, e vede il suo amico Cesario morire come un topo al primo assalto, Adelmo non trova niente di meglio da fare che provare a fuggire dalla sua situazione alzando di nuovo la posta: entrerà a far parte degli Arditi, i reparti di assalto, imparerà a uccidere e a trarre vantaggio dalla violenza. Alla fine sopravviverà alla guerra, ma solo per constatare, una volta tornato a casa, che nulla è cambiato rispetto a un tempo; solo il fratello, caduto in battaglia, ha forse trovato l’unica via di fuga realmente percorribile per gente come loro in un mondo dominato dalle stesse logiche assurde e crudeli operanti durante il conflitto.
 Il secondo racconto ha come protagonista Giovanni Mizzoli, un sottufficiale di estrazione borghese che, seguendo l’esempio di un amico, cerca di scansare i pericoli della vita in trincea e degli assalti alla baionetta fingendosi pazzo e facendosi ricoverare in manicomio. Alla fine cadrà preda di una pazzia reale, per la disperazione della moglie Lisa.
 L’originalità del racconto sta nella commistione di brani di pura invenzione e di documenti storici che descrivono la vita come in effetti era negli ospedali in cui venivano curati i soldati usciti di senno, dove si tentava di discernere tra casi di pazzia vera e le simulazioni di quelli che gli ufficiali dello Stato Maggiore dell’esercito definivano “codardi”, che miravano solo a disertare e a “imboscarsi” per sottrarsi al conflitto.
 L’approccio di Wu Ming finisce per bollare quella distinzione come puramente speciosa: pazzi veri e simulatori erano tutti vittime della guerra e del terrore e della disperazione che essa seminava.
 Il terzo racconto è il più “colto”; protagonista ne è infatti Jacques Vaché, amico di André Breton e suo ispiratore, considerato fra gli iniziatori del surrealismo. Figlio di un ufficiale di carriera, amante degli atteggiamenti da dandy e di tutto ciò che era inglese, Vaché partecipò al conflitto, ma senza fare propria la mentalità militaresca; traendo invece spunto da quell’esperienza per affinare la sua capacità di critica del mondo contemporaneo. Morì nel 1919, senza essere stato congedato: fu trovato una mattina nudo nel letto di una stanza d’albergo insieme al suo amante, entrambi vittime di un’overdose.
 Wu Ming immagina un incontro avvenuto negli Stati Uniti nel 1949 tra Breton e Marie Louise, sorella di Vaché, di vent’anni più giovane di lui, nata proprio negli anni in cui infuriava la Grande guerra. Parlando con Breton, cercando di raccogliere qualche notizia su quel fratello morto quando lei era solo una bambina, e la cui esistenza le è stata tenuta nascosta per decenni dai famigliari, la donna capisce come la vita e la morte scandalosa di Jacques hanno rappresentato una clamorosa per quanto criptica ribellione all’inumana violenza incarnata dalla guerra e così bene impersonata dalla morale rigida e ipocrita del padre militare.
 Non è un caso, poi, che il “tempo della storia” sia collocato dopo la Seconda guerra mondiale; quasi a sottolineare il fatto che gli eventi che sconvolsero il mondo negli anni quaranta del Novecento sono intimamente legati alle dinamiche che misero in moto, venticinque anni prima, la Grande guerra.

Diversi tipi di Shrapnel in uso durante la Prima guerra mondiale

 L’ultimo racconto è sicuramente il più bello e il più originale. Il motivo della dissimulazione come virtuoso strumento di protezione viene qui tematizzato grazie alla figura di Francesco Paolo Bonamore, appartato e attardato pittore di paesaggi, il cui estro sviluppa l’arte del mimetismo e, nel corso della Prima guerra mondiale, cerca di metterla a disposizione dell’esercito italiano. Le tecniche di camouflage messe a punto da Bonamore sarebbero perfette per proteggere i fanti dall’inutile mattanza alla quale vengono esposti; in alcuni casi sono tanto geniali da poter condurre alla più rapida vittoria di una battaglia minimizzando le perdite.
 Il fatto è che lo Stato Maggiore dell’esercito non capisce Bonamore, non comprende nemmeno il suo linguaggio perché ragiona secondo diversi schemi logici: nella concezione eroica, “ascensionale” del conflitto che è diffusa fra i generali, il sacrificio dei soldati non conta granché; piuttosto che nascondere i fanti per proteggerli, essi preferiscono celare le macchine belliche per preservarne l’efficienza e la facoltà di offesa. Anzi, il mimetismo applicato ai soldati è integralmente da rigettare perché contrario alla dominante etica della guerra: nascondersi è “da codardi”.
 Bonamore è un personaggio di pura invenzione, eppure la sua figura, calata in un contesto ricostruito con assoluto rigore documentario, appare perfettamente plausibile, e riesce a svelare gli aspetti deteriori della psicologia e della retorica bellica che furono cogenti cent’anni fa (e forse lo sono anche oggi), e che rimarrebbero oscuri se non venissero portati alla luce con questo escamotage narrativo.
 Questo elaborato e intelligente discorso sul mimetismo permette di assegnare un’assoluta centralità a questo libro nell’ampia produzione di un gruppo di scrittori che proprio del mimetismo ha fatto una delle proprie ragioni d’essere letterarie. Molti criticano i Wu Ming per via della scelta di conservare il loro anonimato, rimanendo “opachi” al cospetto dei mezzi di comunicazione. Alcuni di questi parlano della loro patente differenza come di una forma particolarmente raffinata di esibizionismo, utilizzabile in chiave commerciale; altri, al contrario, stigmatizzano il rifiuto dei quattro scrittori di prendersi personalmente la responsabilità di quello che scrivono presentandosi di fronte ai lettori con i loro nomi e cognomi.
 Qui, in realtà, l’ottica esasperata della guerra consente di assumere un punto di vista totalmente diverso: il mimetismo è una forma di rifiuto dell’esaltazione dell’individualismo più sfrenato che, in pace come in guerra, finisce per essere un pretesto – giocato in maniera ipocrita o gaglioffa – per legittimare varie forme di sopraffazione dell’uomo sull’uomo.
 O, detto altrimenti, la smodata enfatizzazione di ciò che è specificamente individualistico rischia di trasformarsi in un incoraggiamento dell'egoismo, e di far passare in secondo piano ciò che è collettivamente umano, che è proprio di tutti noi, che tutti ci accomuna, e che per questo andrebbe preservato come quello che abbiamo di più prezioso. Il mimetismo, raffinata forma di dissimulazione dell'ego, serve appunto a mettere l'uomo al riparo dall'individuo.

Voto: 7

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