Pur non riproponendo il
collaudato schema del romanzo storico (già sperimentato in passato in numerose
occasioni, cimentandosi con eventi chiave di epoche diverse), i quattro
scrittori del collettivo Wu Ming si confrontano anche questa volta con la
storia, calandosi nello scenario della Grande guerra, e lo fanno come sempre a
modo loro; vale a dire, esplorando alcuni degli aspetti meno conosciuti e più
particolari del periodo indagato, e assumendo una prospettiva inconsueta per
provare a gettare una luce nuova e differente su quanto comunemente si ritiene
già noto.
Il libro si compone di quattro
racconti che narrano le storie di quattro uomini coinvolti nel conflitto, e che
dall’angosciosa trappola di una strategia militare che trasforma i soldati in
mera carne da cannone cercano di trovare una via di fuga.
Il primo racconto, il più
“classico” dei quattro, ha come protagonista Adelmo Cantelli, giovanissimo
contadino dell’Appennino bolognese che odia il lavoro nei campi – a cui lo
costringe l’impoverimento della famiglia che fa seguito allo scoppio della
guerra e alla partenza per il fronte del fratello maggiore – e ama solo la
caccia, in libertà, nei suoi boschi.
Così, la scelta di arruolarsi
come volontario, sottraendosi al controllo dei genitori, è un primo paradossale
tentativo di uscire dalle angustie in cui lo ha indotto la guerra stessa: per
farsi mandare al fronte Adelmo è addirittura costretto a “barare” sulla sua
ridottissima statura, che lo renderebbe riformabile.
E quando si rende conto che la
vita di trincea è solo un’altra prigione, e vede il suo amico Cesario morire
come un topo al primo assalto, Adelmo non trova niente di meglio da fare che
provare a fuggire dalla sua situazione alzando di nuovo la posta: entrerà a far
parte degli Arditi, i reparti di assalto, imparerà a uccidere e a trarre
vantaggio dalla violenza. Alla fine sopravviverà alla guerra, ma solo per
constatare, una volta tornato a casa, che nulla è cambiato rispetto a un
tempo; solo il fratello, caduto in battaglia, ha forse trovato l’unica via di
fuga realmente percorribile per gente come loro in un mondo dominato dalle
stesse logiche assurde e crudeli operanti durante il conflitto.
Il secondo racconto ha come
protagonista Giovanni Mizzoli, un sottufficiale di estrazione borghese che,
seguendo l’esempio di un amico, cerca di scansare i pericoli della vita in
trincea e degli assalti alla baionetta fingendosi pazzo e facendosi ricoverare
in manicomio. Alla fine cadrà preda di una pazzia reale, per la disperazione
della moglie Lisa.
L’originalità del racconto sta
nella commistione di brani di pura invenzione e di documenti storici che
descrivono la vita come in effetti era negli ospedali in cui venivano curati i
soldati usciti di senno, dove si tentava di discernere tra casi di pazzia vera
e le simulazioni di quelli che gli ufficiali dello Stato Maggiore dell’esercito
definivano “codardi”, che miravano solo a disertare e a “imboscarsi” per sottrarsi
al conflitto.
L’approccio di Wu Ming finisce
per bollare quella distinzione come puramente speciosa: pazzi veri e simulatori
erano tutti vittime della guerra e del terrore e della disperazione che essa
seminava.
Il terzo racconto è il più
“colto”; protagonista ne è infatti Jacques Vaché, amico di André Breton e suo
ispiratore, considerato fra gli iniziatori del surrealismo. Figlio di un
ufficiale di carriera, amante degli atteggiamenti da dandy e di tutto ciò che
era inglese, Vaché partecipò al conflitto, ma senza fare propria la mentalità
militaresca; traendo invece spunto da quell’esperienza per affinare la sua
capacità di critica del mondo contemporaneo. Morì nel 1919, senza essere stato
congedato: fu trovato una mattina nudo nel letto di una stanza d’albergo
insieme al suo amante, entrambi vittime di un’overdose.
Wu Ming immagina un incontro
avvenuto negli Stati Uniti nel 1949 tra Breton e Marie Louise, sorella di Vaché, di vent’anni più giovane di lui, nata proprio negli anni
in cui infuriava la Grande guerra. Parlando con Breton, cercando di raccogliere
qualche notizia su quel fratello morto quando lei era solo una bambina, e la
cui esistenza le è stata tenuta nascosta per decenni dai famigliari, la donna
capisce come la vita e la morte scandalosa di Jacques hanno rappresentato una
clamorosa per quanto criptica ribellione all’inumana violenza incarnata dalla
guerra e così bene impersonata dalla morale rigida e ipocrita del padre
militare.
Non è un caso, poi, che il “tempo
della storia” sia collocato dopo la Seconda guerra mondiale; quasi a sottolineare il fatto che gli
eventi che sconvolsero il mondo negli anni quaranta del Novecento sono
intimamente legati alle dinamiche che misero in moto, venticinque anni prima,
la Grande guerra.
Diversi tipi di Shrapnel in uso durante la Prima guerra mondiale
L’ultimo racconto è sicuramente
il più bello e il più originale. Il motivo della
dissimulazione come virtuoso strumento di protezione viene qui tematizzato grazie alla figura di Francesco Paolo
Bonamore, appartato e attardato pittore di paesaggi, il cui estro sviluppa
l’arte del mimetismo e, nel corso della Prima guerra mondiale, cerca di
metterla a disposizione dell’esercito italiano. Le tecniche di camouflage messe a punto da Bonamore
sarebbero perfette per proteggere i fanti dall’inutile mattanza alla quale
vengono esposti; in alcuni casi sono tanto geniali da poter condurre alla più
rapida vittoria di una battaglia minimizzando le perdite.
Il fatto è che lo Stato Maggiore
dell’esercito non capisce Bonamore, non comprende nemmeno il suo linguaggio
perché ragiona secondo diversi schemi logici: nella concezione eroica,
“ascensionale” del conflitto che è diffusa fra i generali, il sacrificio dei
soldati non conta granché; piuttosto che nascondere i fanti per proteggerli,
essi preferiscono celare le macchine belliche per preservarne l’efficienza e la
facoltà di offesa. Anzi, il mimetismo applicato ai soldati è integralmente da
rigettare perché contrario alla dominante etica della guerra: nascondersi è “da
codardi”.
Bonamore è un personaggio di pura
invenzione, eppure la sua figura, calata in un contesto ricostruito con
assoluto rigore documentario, appare perfettamente plausibile, e riesce a
svelare gli aspetti deteriori della psicologia e della retorica bellica che furono
cogenti cent’anni fa (e forse lo sono anche oggi), e che rimarrebbero oscuri se
non venissero portati alla luce con questo escamotage narrativo.
Questo elaborato e intelligente
discorso sul mimetismo permette di assegnare un’assoluta centralità a questo
libro nell’ampia produzione di un gruppo di scrittori che proprio del mimetismo
ha fatto una delle proprie ragioni d’essere letterarie. Molti criticano i Wu
Ming per via della scelta di conservare il loro anonimato, rimanendo “opachi”
al cospetto dei mezzi di comunicazione. Alcuni di questi parlano della loro
patente differenza come di una forma particolarmente raffinata di esibizionismo,
utilizzabile in chiave commerciale; altri, al contrario, stigmatizzano il
rifiuto dei quattro scrittori di prendersi personalmente la responsabilità di
quello che scrivono presentandosi di fronte ai lettori con i loro nomi e
cognomi.
Qui, in realtà, l’ottica
esasperata della guerra consente di assumere un punto di vista totalmente
diverso: il mimetismo è una forma di rifiuto dell’esaltazione dell’individualismo
più sfrenato che, in pace come in guerra, finisce per essere un pretesto –
giocato in maniera ipocrita o gaglioffa – per legittimare varie forme di
sopraffazione dell’uomo sull’uomo.
O, detto altrimenti, la smodata enfatizzazione di ciò che è specificamente individualistico rischia di trasformarsi in un incoraggiamento dell'egoismo, e di far passare in secondo piano ciò che è collettivamente umano, che è proprio di tutti noi, che tutti ci accomuna, e che per questo andrebbe preservato come quello che abbiamo di più prezioso. Il mimetismo, raffinata forma di dissimulazione dell'ego, serve appunto a mettere
l'uomo al riparo dall'individuo.
Voto: 7
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