George Best era emozione,
velocità, stupore; la sua leggenda – e le fantasie di cui essa si sostanzia
nell’immaginario popolare – si basano su questi elementi. Duncan Hamilton non
trascura tutto questo, ma il suo approccio alla figura del campione di Belfast
è più complesso e sfaccettato.
Il titolo dell’originale inglese
suona così: Immortal: The Definitive
Biography of George Best.
L’aspirazione è dunque quella di
stabilire qualcosa di “definitivo” a proposito della vita di George Best, e uno
dei pregi maggiori di questo libro, in effetti, è la completezza, ottenuta
grazie a un eccezionale sforzo di documentazione, che l’autore si sobbarca in
virtù della sua dichiarata passione per il personaggio. Del resto, come
Hamilton stesso afferma, scrivere una biografia significa restare per mesi – e
a volte per anni – in costante compagnia della medesima persona; difficile
portare a termine il progetto se non si gradisce quella compagnia.
Il fatto che Hamilton parteggi
scopertamente per George Best, tuttavia, non gli impedisce di esplorare le
molte zone d’ombra della tormentata parabola esistenziale di questo
fuoriclasse, e nessuno sconto viene fatto quando occorre mettere a fuoco le
precise responsabilità del calciatore nordirlandese nel suo precoce declino.
Prima di tutto questo, però, c’è
l’esaltazione del mito, rappresentata in maniera indimenticabile dalla
straordinaria partecipazione popolare ai funerali di George Best, celebrati il
3 dicembre del 2005 e descritti da Hamilton con altissimi toni epici ed
elegiaci, che fanno vibrare all’inverosimile la corda della commozione.
Da qui si parte per cominciare a
parlare delle origini di Best, della nascita in un’umile famiglia operaia, degli
anni della sua formazione a Belfast, dell’amore per il calcio fin da ragazzo,
della sua timidezza fuori dal campo, paradossalmente associata alla sua proverbiale
sfrontatezza durante le partite.
Poi George fu notato da Bob
Bishop, romanzesco personaggio che faceva l’osservatore per conto del Manchester
United in Irlanda del Nord; e per lui cominciò la vera avventura. In realtà non
partì esattamente col piede giusto: appena giunse a Manchester, a quindici
anni, Best si sentì tanto solo e disorientato da decidere immediatamente di
tornare a Belfast. Soltanto la saggezza del padre e la pazienza dei
responsabili della squadra gli consentirono di rivedere quella scelta e di
avere l’abbrivio per una carriera senza eguali.
George Best al culmine della sua carriera
Il racconto degli anni precedenti
l’esordio in Prima Divisione (allora non esisteva la denominazione Premier League), passati fra allenamenti
sempre più duri, le cure di Mary Fullaway – presso la quale alloggiava a
Manchester, e che divenne per lui una sorta di seconda madre − e il crescente
interesse per la giovane speranza del vivaio da parte di Matt Busby,
costituisce senz’altro la parte più bella del libro.
Busby, lo storico allenatore
della squadra, era stato coinvolto nel 1958 nell’incidente aereo di Monaco, nel
quale quasi tutti i migliori giocatori del Manchester erano morti di ritorno da
una semifinale di Coppa dei Campioni. Da allora tutto il suo impegno era teso
al tentativo di ricostruire un team capace di competere ai massimi livelli in
Europa. In Best, Busby vedeva, da una parte, il genio calcistico intorno al
quale poter organizzare una squadra vincente; d’altra parte, però, riversava su
di lui un affetto simile a quello che si prova per un figlio, come se leggesse
nell’arrivo del giovane una sorta di risarcimento per la perdita dei “suoi”
ragazzi, che il fato gli aveva crudelmente strappato sulla pista dell’aeroporto
di Monaco.
Best, da parte sua, si
sorprendeva sempre un po’ dell’attenzione che Busby dimostrava nei suoi
confronti; nel suo candore adolescenziale, non si riteneva così bravo da
meritarla. Si riteneva troppo minuto e fragile per poter competere con i
migliori; non si rendeva perfettamente conto del suo talento.
George Best palleggia in mezzo a un gruppo di giovani calciatrici
Il resto è noto, anche se qui
viene narrato con una ricchezza di particolari altrove introvabile: la rapida
ascesa, il folgorante successo che trasformano Best nella prima icona pop del
calcio britannico, gli anni ruggenti in cui divenne uno dei migliori giocatori
del mondo, il mito del “quinto Beatle”, l’apoteosi della conquista della Coppa
dei Campioni e del Pallone d’oro nel 1968; da qui il denaro, le donne, gli
eccessi, le prime difficoltà, la crisi, i tentativi di risollevarsi; e poi il
tracollo professionale e la fine del rapporto col Manchester, senza che ne
risultino compromessi né il fascino di Best al cospetto del pubblico, né la sua
capacità di fare soldi. Con il passare degli anni arriveranno le battute
folgoranti, in linea con il personaggio trasgressivo che i media gli hanno
cucito addosso, e la definitiva compromissione della sua salute per via dei
suoi problemi con l’alcol, dapprima negati con insistenza, e poi divenuti tanto
evidenti da essere impossibili da nascondere. La morte giungerà, desolatamente,
dopo un inutile trapianto di fegato.
Cosa rimane della figura di Best
dopo aver letto questo libro?
Senz’altro il senso della
freschezza dei suoi primi anni a Manchester, in cui la sua passione per lo
sport era autentica e praticamente esaustiva, e in cui maturò un amore per la
maglia della propria storica squadra che non venne mai meno, neppure nei
momenti più bui.
Resta la consapevolezza che
nessuno come lui, nel bene e nel male, seppe incarnare nel mondo del calcio la
carica di novità e di informalità, capace di scompaginare i vecchi schemi, che
investì a tutti i livelli la civiltà occidentale negli anni intorno al 1968.
Duncan Hamilton
Resta poi l’intuizione di un’intelligenza
assai più vivace di quanto taluni comportamenti e scelte di vita lascerebbero
supporre; un’intelligenza evidente tanto nelle battute spaccone (“Se fossi
stato brutto, nessuno avrebbe sentito parlare di Pelé”; “Dicono che sono uscito
con sette miss mondo, ma erano solo quattro. Alle altre tre ho dato buca”)
quanto in quelle autoironiche (“Ho speso gran parte dei miei soldi per alcol,
donne e automobili sportive. Il resto l’ho sperperato”; “Nel 1969 ho dato un
taglio ad alcol e donne. Sono stati i 20 minuti peggiori della mia vita”; “Ho
smesso di bere… ma solo quando dormo”).
Resta però anche l’impressione di
un approccio un po’ troppo “istituzionale”, che pur senza nascondere nulla
della vita di Best, tende a smorzare asperità e contrasti, e ad attenuare
quello che potrebbe infastidire coloro presso i quali il mito soprattutto dura:
i tifosi del Manchester United. Un esempio? Non viene riportato il suo celebre,
tagliente giudizio su David Beckham, altra icona, a noi più vicina, del club: “Non sa
calciare col piede sinistro, non sa colpire di testa, non sa contrastare e non
segna molto. A parte ciò è un buon giocatore”.
Così si rischia stranamente di tradire un po' proprio ciò che sarà sempre indissolubilmente legato al nome di George Best: emozione, velocità, stupore.
Voto: 5,5
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