domenica 17 gennaio 2016

Duncan Hamilton, "George Best, l'immortale", 66th a2nd


 George Best era emozione, velocità, stupore; la sua leggenda – e le fantasie di cui essa si sostanzia nell’immaginario popolare – si basano su questi elementi. Duncan Hamilton non trascura tutto questo, ma il suo approccio alla figura del campione di Belfast è più complesso e sfaccettato.
 Il titolo dell’originale inglese suona così: Immortal: The Definitive Biography of George Best.
 L’aspirazione è dunque quella di stabilire qualcosa di “definitivo” a proposito della vita di George Best, e uno dei pregi maggiori di questo libro, in effetti, è la completezza, ottenuta grazie a un eccezionale sforzo di documentazione, che l’autore si sobbarca in virtù della sua dichiarata passione per il personaggio. Del resto, come Hamilton stesso afferma, scrivere una biografia significa restare per mesi – e a volte per anni – in costante compagnia della medesima persona; difficile portare a termine il progetto se non si gradisce quella compagnia.
 Il fatto che Hamilton parteggi scopertamente per George Best, tuttavia, non gli impedisce di esplorare le molte zone d’ombra della tormentata parabola esistenziale di questo fuoriclasse, e nessuno sconto viene fatto quando occorre mettere a fuoco le precise responsabilità del calciatore nordirlandese nel suo precoce declino.
 Prima di tutto questo, però, c’è l’esaltazione del mito, rappresentata in maniera indimenticabile dalla straordinaria partecipazione popolare ai funerali di George Best, celebrati il 3 dicembre del 2005 e descritti da Hamilton con altissimi toni epici ed elegiaci, che fanno vibrare all’inverosimile la corda della commozione.
 Da qui si parte per cominciare a parlare delle origini di Best, della nascita in un’umile famiglia operaia, degli anni della sua formazione a Belfast, dell’amore per il calcio fin da ragazzo, della sua timidezza fuori dal campo, paradossalmente associata alla sua proverbiale sfrontatezza durante le partite.
 Poi George fu notato da Bob Bishop, romanzesco personaggio che faceva l’osservatore per conto del Manchester United in Irlanda del Nord; e per lui cominciò la vera avventura. In realtà non partì esattamente col piede giusto: appena giunse a Manchester, a quindici anni, Best si sentì tanto solo e disorientato da decidere immediatamente di tornare a Belfast. Soltanto la saggezza del padre e la pazienza dei responsabili della squadra gli consentirono di rivedere quella scelta e di avere l’abbrivio per una carriera senza eguali.

George Best al culmine della sua carriera

 Il racconto degli anni precedenti l’esordio in Prima Divisione (allora non esisteva la denominazione Premier League), passati fra allenamenti sempre più duri, le cure di Mary Fullaway – presso la quale alloggiava a Manchester, e che divenne per lui una sorta di seconda madre − e il crescente interesse per la giovane speranza del vivaio da parte di Matt Busby, costituisce senz’altro la parte più bella del libro.
 Busby, lo storico allenatore della squadra, era stato coinvolto nel 1958 nell’incidente aereo di Monaco, nel quale quasi tutti i migliori giocatori del Manchester erano morti di ritorno da una semifinale di Coppa dei Campioni. Da allora tutto il suo impegno era teso al tentativo di ricostruire un team capace di competere ai massimi livelli in Europa. In Best, Busby vedeva, da una parte, il genio calcistico intorno al quale poter organizzare una squadra vincente; d’altra parte, però, riversava su di lui un affetto simile a quello che si prova per un figlio, come se leggesse nell’arrivo del giovane una sorta di risarcimento per la perdita dei “suoi” ragazzi, che il fato gli aveva crudelmente strappato sulla pista dell’aeroporto di Monaco.
 Best, da parte sua, si sorprendeva sempre un po’ dell’attenzione che Busby dimostrava nei suoi confronti; nel suo candore adolescenziale, non si riteneva così bravo da meritarla. Si riteneva troppo minuto e fragile per poter competere con i migliori; non si rendeva perfettamente conto del suo talento.

George Best palleggia in mezzo a un gruppo di giovani calciatrici

 Il resto è noto, anche se qui viene narrato con una ricchezza di particolari altrove introvabile: la rapida ascesa, il folgorante successo che trasformano Best nella prima icona pop del calcio britannico, gli anni ruggenti in cui divenne uno dei migliori giocatori del mondo, il mito del “quinto Beatle”, l’apoteosi della conquista della Coppa dei Campioni e del Pallone d’oro nel 1968; da qui il denaro, le donne, gli eccessi, le prime difficoltà, la crisi, i tentativi di risollevarsi; e poi il tracollo professionale e la fine del rapporto col Manchester, senza che ne risultino compromessi né il fascino di Best al cospetto del pubblico, né la sua capacità di fare soldi. Con il passare degli anni arriveranno le battute folgoranti, in linea con il personaggio trasgressivo che i media gli hanno cucito addosso, e la definitiva compromissione della sua salute per via dei suoi problemi con l’alcol, dapprima negati con insistenza, e poi divenuti tanto evidenti da essere impossibili da nascondere. La morte giungerà, desolatamente, dopo un inutile trapianto di fegato.
 Cosa rimane della figura di Best dopo aver letto questo libro?
Senz’altro il senso della freschezza dei suoi primi anni a Manchester, in cui la sua passione per lo sport era autentica e praticamente esaustiva, e in cui maturò un amore per la maglia della propria storica squadra che non venne mai meno, neppure nei momenti più bui.
 Resta la consapevolezza che nessuno come lui, nel bene e nel male, seppe incarnare nel mondo del calcio la carica di novità e di informalità, capace di scompaginare i vecchi schemi, che investì a tutti i livelli la civiltà occidentale negli anni intorno al 1968.

Duncan Hamilton

 Resta poi l’intuizione di un’intelligenza assai più vivace di quanto taluni comportamenti e scelte di vita lascerebbero supporre; un’intelligenza evidente tanto nelle battute spaccone (“Se fossi stato brutto, nessuno avrebbe sentito parlare di Pelé”; “Dicono che sono uscito con sette miss mondo, ma erano solo quattro. Alle altre tre ho dato buca”) quanto in quelle autoironiche (“Ho speso gran parte dei miei soldi per alcol, donne e automobili sportive. Il resto l’ho sperperato”; “Nel 1969 ho dato un taglio ad alcol e donne. Sono stati i 20 minuti peggiori della mia vita”; “Ho smesso di bere… ma solo quando dormo”).
 Resta però anche l’impressione di un approccio un po’ troppo “istituzionale”, che pur senza nascondere nulla della vita di Best, tende a smorzare asperità e contrasti, e ad attenuare quello che potrebbe infastidire coloro presso i quali il mito soprattutto dura: i tifosi del Manchester United. Un esempio? Non viene riportato il suo celebre, tagliente giudizio su David Beckham, altra icona, a noi più vicina, del club: “Non sa calciare col piede sinistro, non sa colpire di testa, non sa contrastare e non segna molto. A parte ciò è un buon giocatore”.
 Così si rischia stranamente di tradire un po' proprio ciò che sarà sempre indissolubilmente legato al nome di George Best: emozione, velocità, stupore.

Voto: 5,5

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