Quando Lila Dahl arriva a Gilead
e si sistema in una capanna abbandonata in mezzo a un campo ai margini della
cittadina è una donna ancora giovane, ma ha alle spalle una vita avventurosa e
vagabonda, che le ha insegnato a non fidarsi di nessuno e ad apprezzare la
solitudine. Porta con sé un coltello affilatissimo e una coperta, e non
possiede altri beni.
Il suo cognome è inventato,
perché da bambina è stata portata via alla sua famiglia d’origine, dove a
malapena si accorgevano di lei. A compiere il furto della bambina è stata Doll,
che ha un passato misterioso e violento, e su una guancia lo sfregio di una
terribile scottatura: Doll ha semplicemente raccolto Lila in preda alla febbre
avvolgendola in uno scialle per tenerla al caldo e, da quel momento, le ha
fatto da madre e da padre.
Doll e Lila si sono unite al
gruppo guidato da Doane, e per anni hanno girovagato per gli Stati Uniti fermandosi
qua e là, dove era possibile lavorare; soltanto per una stagione Lila ha potuto
frequentare la scuola pubblica, imparando a leggere e a fare di conto. Il
sodalizio con Doane e i suoi è durato fino agli anni della Grande depressione,
quando la miseria e la carestia hanno disperso tutti i loro compagni ai quattro
angoli del Paese.
A quel punto Doll era già
invecchiata, ma Lila era diventata abbastanza grande da cavarsela da sola,
guadagnandosi la vita come commessa in un negozio.
Sembravano le premesse perfette
per la costruzione di una nuova serenità; ma un giorno Doll era tornata a casa completamente
coperta di sangue dopo aver ucciso a coltellate un uomo che la minacciava.
L’arresto e la perdita dell’unica persona amica che avesse al mondo avevano precipitato
Lila nel più assoluto stordimento, spingendola ad abbandonare ogni cosa e a
partire per andare più lontano possibile. Così era approdata a Saint Louis, ed
era finita a lavorare in un bordello.
Nel momento in cui giunge
nell’Iowa e si rifugia nella capanna vicino al fiume, Lila è in fuga da tutto
ciò, e il coltello che porta con sé è proprio quello con cui la vecchia Doll ha
ucciso.
Nessuno però, a Gilead, sa queste
cose.
Lila del resto, non ha in mente
nessun progetto particolare e non pensa di fermarsi lì; spera solo di
guadagnare – con dei piccoli lavoretti svolti per le famiglie del posto –
abbastanza denaro per prendere una corriera e spostarsi dall’Iowa verso regioni
più calde prima che cali l’inverno.
Questo anche se a Gilead in
effetti si sente benvoluta: tutti sembrano disposti a darle una mano, tutti le
offrono qualche lavoro con cui sbarcare il lunario. Probabilmente la cortesia
degli abitanti della cittadina è dovuta ai buoni uffici di John Ames, il
vecchio pastore della chiesa calvinista − nella quale Lila si è riparata per
caso in un giorno di pioggia –, che è stato gentile con lei come mai nessuno
prima.
Il pastore le ha parlato, l’ha
ascoltata, ha mostrato interesse verso di lei, le ha persino proposto di
battezzarsi. Lila non ha accettato subito, ma in cambio, senza che nessuno
glielo chiedesse, ha preso a occuparsi dell’orto del pastore e anche, nel vicino
cimitero, della tomba della moglie e della figlioletta, morte molto tempo prima.
Non può certo immaginare che, di
lì a poco, proprio lei diventerà la nuova moglie di John Ames, e porterà in
grembo suo figlio, mentre nella sua casa, nella tenerezza di un amore
dolcissimo e autentico nonostante la differenza d’età, comincerà a riflettere
sulla sua esistenza, e sull’esistenza umana in generale.
Marilynne Robinson
La prospettiva di prendersi cura
di una nuova creatura, la lettura della Bibbia, il dialogo garbato e profondo
col marito, il confronto con le durezze che ha dovuto attraversare in passato,
l’impossibilità di eliminare il dolore o di imparare ad accettarlo fino in
fondo renderanno la riflessione di Lila e il suo percorso interiore complessi e
articolati, rivelando una personalità interessantissima e conferendo alla sua
esperienza del tutto singolare una valenza universale.
Con il terzo episodio della saga
iniziata con Gilead e proseguita con Casa, Marilynne Robinson procede ancora
una volta a ritroso nel tempo, quasi a esplorare le radici delle vicende
raccontate nei romanzi precedenti. Lo fa, come sempre, sulla scorta di quella
cultura cristiana intrisa di richiami veterotestamentari e, nel contempo, di
quella mentalità pionieristica aperta al futuro che insieme sono tanta parte
dello spirito che caratterizza quasi geneticamente l’America profonda.
Lo fa, soprattutto, sulla scorta
di una scrittura impareggiabile, raffinatissima, nemica giurata della retorica
ad effetto.
La prosa di Marilynne Robinson –
resa in maniera magistrale dalla traduttrice Eva Kampmann – crea un tessuto di
parole fittissimo, che aderisce alla perfezione ai pensieri dei personaggi: una
candida coltre di neve che copre ogni cosa, lasciando indovinare la purezza dei
sentimenti che si nascondono sotto la purezza delle frasi.
Tanto che, a distanza di tempo
dalla prima lettura di un romanzo di questa scrittrice, il lettore sperimenta
come può capitare di dimenticare alcuni particolari dell’intreccio, ma si
ricordano con assoluto nitore sia il carattere specifico dei personaggi, sia le
dinamiche sentimentali in atto tra loro, sia il “clima morale” in cui si
svolgono le vicende raccontate.
Insomma, per lo stile, per l'abilità nel tratteggiare la fisionomia dei suoi protagonisti con una finezza difficilmente eguagliabile, per la capacità di immergere totalmente il lettore in un mondo concreto, con le sue regole e la sua particolare sensibilità, possiamo ben riconoscere in Marilynne Robinson una delle massime scrittrici oggi viventi.
Voto: 8,5
grazie per il magistrale :-D
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