Ho letto una prima volta il Trattato del Ribelle diversi anni fa,
senza trovarlo particolarmente significativo, e anzi costruito su una struttura
argomentativa debole e non priva di contraddizioni; l’ho ripreso in mano ora perché
mi sembra curioso che venga citato come testo di riferimento da esponenti di
spicco della destra italiana contemporanea (come Giorgia Meloni) perfettamente
integrati nella classe dirigente politica che si specchia con serenità nelle
istituzioni dello Stato, proprio come lo citavano i loro padri ideologici di
estrazione neofascista, che invece con quelle istituzioni avevano un rapporto
quantomeno controverso.
Il saggio venne composto nel 1951,
e riflette tutto il disorientamento e l’inquietudine della borghesia tedesca
del dopoguerra, che – uscita con le ossa rotte dalle disastrose esperienze del
conflitto mondiale e del nazismo (in cui aveva creduto) – non si sentiva
adeguatamente tutelata dalle istituzioni democratiche (le quali, del resto, in
verità, non avevano impedito nel 1933 la presa del potere da parte di Hitler)
al cospetto dell’incombere della minaccia del socialismo reale incarnato negli
assetti politici a cui era stata destinata la DDR.
Ciò che sembra sconcertare di più
Jünger è l’assoluta impotenza del singolo cittadino elettore di fronte al
potere schiacciante della maggioranza, soprattutto quando essa costituisce la
plastica rappresentazione del controllo sulle menti e sui cuori di un’autorità
statale di matrice totalitaria (identificabile con il Leviatano di hobbesiana
memoria), per la quale le elezioni costituiscono solo l’occasione per ribadire
teatralmente la propria legittimità (ragion per cui la presenza di un modesto
dissenso – quantificabile più o meno con il 2 percento dei votanti – diventa
funzionale agli scopi dell’autorità stessa).
L’unica forma di opposizione possibile
per il singolo sta allora nel trasformarsi in un Ribelle; il termine italiano è l’approssimativa traduzione del
tedesco Waldgänger, letteralmente “colui
che passa al bosco”, “colui che si dà alla macchia”, insomma colui che rifiuta
l’integrazione nel sistema sociale in cui si trova a vivere, non accetta di
essere semplicemente un membro di una collettività, e cerca dentro di sé le
risorse spirituali per affermare la propria libertà, la propria superiore
individualità, la natura immortale della propria essenza.
Si capisce bene come gli irriducibili
del neofascismo, in preda a una sorta di “sindrome da accerchiamento” all’interno
del nuovo regime democratico, fossero portati a identificarsi e a trarre
ispirazione da questa suggestiva figura, tanto più che Jünger la proponeva in
chiave non troppo velatamente antibolscevica.
Il Ribelle viene dipinto con una serie di caratteristiche, alcune
tratteggiate con vaghezza, altre specificate con estrema precisione: egli “non
si lascia imporre la legge da nessuna forma di potere superiore, né con i mezzi
della propaganda, né con la forza”; “è molto determinato a difendersi non
soltanto usando tecniche e idee del suo tempo, ma anche mantenendo vivo il
contatto con quei poteri che, superiori alle forze temporali, non si
esauriscono mai in puro movimento”. Il suo orientamento è sostanzialmente
antimodernista, perché si oppone a qualsiasi forma di automazione introdotta
dalle macchine; e tuttavia “nell’ambito delle terapie mediche, del diritto e
dell’uso delle armi la decisione sovrana spetta solamente a lui”; per di più, “anche
in campo morale le sue azioni non si conformano in alcuna dottrina”.
Un giovane Ernst Junger in uniforme, con le decorazioni ricevute nel corso della Prima guerra mondiale
Questo complesso di caratteristiche
non possono che condurre a riconoscere nel Ribelle un individuo dalle qualità d’animo
eccezionali, nettamente al di sopra della media, e ben conscio della propria
superiorità sulla massa degli altri uomini.
Significativo e piuttosto
interessante, in relazione a tali caratteristiche, è l’atteggiamento di Jünger
nei confronti della proprietà, perché sembra abbastanza in contrasto con lo “spiritualismo”
che per il resto connota la fisionomia del Ribelle; rifiutando il concetto
secondo cui “la proprietà è un furto”, e sostenendo anzi che “l’esproprio che
prende di mira la proprietà come idea ha come conseguenza inevitabile la
schiavitù”, il filosofo tedesco arriva ad affermare che, in un certo senso, “la
proprietà è esistenziale, vincolata al suo detentore e indissolubilmente legata
al suo essere”
Così, gli sbocchi naturali di una
simile impostazione finiscono per essere essenzialmente due : 1) l’individualismo
sfrenato; 2) Il culto delle élites. Il che lascia piuttosto perplessi.
D’altra parte bisogna ammettere
che tutto ciò che definisce la “singolarità” e la “diversità” del Ribelle può
anche risultare molto affascinante; ma mi sembra che a lasciarsene affascinare
sia soprattutto il sociopatico che alberga in ognuno di noi: tutto sommato, infatti,
nella maggior parte dei casi, professarsi un Ribelle significa trovare una
comoda giustificazione per assecondare passivamente le proprie idiosincrasie o
il proprio egoismo, senza darsi la minima pena di provare a confrontarsi con
gli altri con un pizzico di umiltà.
Personalmente, dunque, posso affermare senza remore di preferire alla figura del Ribelle quella del Conformista come lo intendeva Antonio Gramsci quando, nel Quaderno 14, diceva: " Conformismo significa niente altro che socialità; ma piace usare la parola conformismo appunto per urtare gli imbecilli".
Voto: 6