Ogni anno, dopo la proclamazione del nuovo Premio Nobel per la Letteratura, mi viene voglia di prendere in mano un testo di uno dei Premi Nobel passati, un po' per una mia esigenza di confronto di ciò che è stato ieri col presente, un po' per mettere alla prova i criteri con cui l'Accademia svedese costruisce nel tempo il suo Canone, un po' per verificare direttamente come cambia negli anni la percezione di autori comunque significativi, e della loro opera.
Nei giorni scorsi la scelta è caduta su Atemschaukel (L'altalena del respiro), un romanzo di Herta Muller, scrittrice di lingua tedesca originaria del Banato rumeno, vincitrice del Premio nel 2009.
Il libro racconta la storia di
Leopold Auberg, tedesco di Romania, deportato in un Lager sovietico nel 1945,
dopo la riconquista dei territori dell’est Europa da parte dell’Armata Rossa,
come realmente accadde a tutti gli uomini e le donne di nazionalità tedesca di
età compresa tra i diciassette e i quarantacinque anni residenti nei territori occupati, costretti a partecipare
alla “ricostruzione” per riparare i danni portati dall’esercito nazista.
Anche la madre di Herta Müller
visse quell’esperienza, che la scrittrice rivisita con questo romanzo.
Leopold, giovane omosessuale appartenente a una famiglia piccolo borghese,
resta rinchiuso nel campo russo per cinque anni, fino al gennaio 1950, e
subisce tutti i traumi che l’universo concentrazionario comporta, e che altri
autori hanno descritto magistralmente in passato: le torture psicologiche e le
umiliazioni, la fatica estrema e la perdita della dignità umana, il freddo e la
fame onnipresente, capace di portare alla follia.
Herta Muller
Quello che è estremamente
originale in questo libro è la propensione ancora infantile di Leo a
trasfigurare ogni cosa in chiave surrealistica, dalle peggiori sofferenze alle
piccole gioie che la vita persino nel Lager alle volte sa regalare: la fame
stessa diventa un personaggio, una sorta di maligno angelo custode che non
abbandona mai i prigionieri; la pala con cui si spala il carbone diventa un
simbolo mistico; il turno di lavoro forzato diventa un’opera d’arte; la morte
diventa una lepre che improvvisamente stravolge la fisionomia del viso dei
condannati.
Lo stile di Herta Müller
asseconda la fantasia di Leo, tanto che ci sono passi in cui il libro sembra
diventare un grande affascinante poema in prosa. Questo lirismo nulla toglie,
però, alla concretezza dell’esperienza orribile che ci viene restituita, e anzi
contribuisce a sottolinearne gli aspetti disumani e le conseguenze
irreparabili: una volta tornato a casa, Leopold si accorge di aver smarrito
ogni punto di riferimento e di non poter ritrovare l’umano calore della sua
famiglia, che non può capire ciò che egli ha vissuto, e che comunque non è in
grado di accogliere i suoi sfoghi senza provare disagio.
Con gli anni scoprirà
che l’unica via d’uscita che gli resta per non farsi sopraffare dai suoi
fantasmi è la scelta dell’esilio.
Voto: 7,5
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