sabato 29 febbraio 2020

Mariangela Gualtieri, "Quando non morivo", Einaudi


 La poesia di Mariangela Gualtieri è una poesia che costantemente trascorre dal sentimento alla razionalità, dal senso del divino a quello dell'umano, e si configura come una versificazione di tipo lirico-filosofico: la sua ultima raccolta, Quando non morivo, ne è uno splendido esempio. 
 Le 6 sezioni in cui sono suddivisi gli 82 componimenti di cui consta il libro disegnano un percorso che, partendo dalla precisazione delle caratteristiche e dei confini dell'io lirico, passando attraverso una rassegna degli elementi del mondo naturale con cui la sostanza ontologica ed emotiva di ciascuno di noi entra in contatto e in risonanza (animali, vegetali, bambini, uomini), giunge a tratteggiare l'idea - o forse sarebbe meglio dire l'ipotesi - di un Dio da invocare e da provocare; un Dio che va oltre il senso comune, anche se dal senso comune (traduzione degli slanci e dei limiti della nostra povera umanità) non può che prendere le mosse: un Dio che, nel momento in cui si fa riferimento alla tradizione cristiana, sembra quantomai lontano, sordo alle nostre preghiere, e soltanto quando da quella tradizione ci si discosta per fare propria una visione in qualche modo panteistica dell'universo torna a risultare vicino, familiare, amico.
 La prima sezione, intitolata Ecce cor meum, si apre con un componimento, La celeste pazzia, che è una vera dichiarazione di poetica ("Procedi piano. Lascia che la mano / esegua il fragile dettato. / Abbi fede in quel niente / che viene - quel niente che succede") e chiarisce come un atteggiamento onestamente contemplativo sia la chiave attraverso la quale l'io poetante - senza alchimie, forzature o pretesi esoterismi - cerca di comporre il puzzle di una coerente visione del mondo. 
 E' questo il punto di partenza per sondare le virtù e i limiti del nostro essere, che si materializzano nella nostra naturale propensione a osservare la realtà e a elaborare quello che osserviamo ("Spingo nella frana i miei pensieri / poi guardo il cielo"), e nel nostro bisogno degli altri, nel nostro bisogno di amore (tanto per ricorrere a una parola e a un concetto forse abusati, ma certamente ineludibili: "La parola Amore mi gira intorno. / Vuole sempre venire / in ogni riga"). 
 Un bisogno talmente evidente da risaltare ancora di più quando non viene soddisfatto ("A te che manchi in questa stanza / e il tuo mancare è già gran cosa / che ingravida il mio vuoto nell'attesa", laddove la forza dell'endecasillabo a maiore che chiude il periodo conferisce alla potenzialità insita nella mancanza un peso straordinario).
 Nel definire i confini del nostro essere, naturalmente, si deve fare i conti anche con la nostra sostanza corporea, che ci inchioda alla nostra piccolezza ("Questo corpo in pezzi di accetta / separato. Questo legno ossificato. / Stavo fra le lenzuola come un seme /interrato."), e con la multiforme variabilità dell'universo a cui ci relazioniamo ("ha molte facce / l'amore mio. Umane facce / e musi. Ha tutte le parole. / ha note, sinfonie, voci cantate", in Il quotidiano innamoramento). 
 Sulla scorta di una ricognizione identitaria così definita, l'atto stesso del pregare non costituisce un gesto di devota sottomissione a un essere superiore, ma uno strumento per entrare in totale sintonia con il cosmo ("Pregare è ascolto immoto. / Fa bene al prato. Fa bene al globo / intero. Fa bene a me / e a te."). Tanto che persino l'invocazione di Maria diventa occasione per rimuovere quanto di astratto e di asetticamente neutrale c'è nella figura della Madonna ("Creatura strana, sembri, che non ha / intestino, una sacra vagina / un utero, uno stomaco pieno") e richiamare la sua materiale animalità ("col tuo corpo vivo / di madre che sconquassa per l'uscita / del nato, tutto bagnato, tutto / ancora animale", in Domande a Maria I).
 Proprio agli animali, intesi come esseri viventi che condividono il nostro destino, è dedicata la seconda sezione del libro, Animali di silenzio. Cani, gatti, caprioli, uccelli persino insetti appaiono affratellati all'uomo dall'identica esposizione alle bellezze del mondo, agli entusiasmi dell'istinto e al mistero della morte. Più dell'uomo, però, spesso gli animali paiono vicini alla divina armonia dell'universo ("Ancora nella grande / gattesca pace. Qui. / Il frullio delle fusa / tremola l'aria. Protegge - / lo sappiamo - / alza tutto intorno / delicata imbattibile barriera"; "E inventa l'ape, che cuce fiore con fiore, / ebbra la invoglia nell'intima corolla / dove lei succhia fino a gonfiarsi / d'un polline d'amore").
 La stessa divina armonia pervade il mondo vegetale, protagonista principale della successiva sezione, Riassunto della creazione, dove, ad esempio, un fiore può diventare l'immagine stessa del paradiso ("Ti vedo fiore! Entro nel tuo enigma. / Io mi riposo in te che sei guanciale / e camera celeste per nuotare / dentro la luce e sminuire / fino alla pezzatura dell'insetto - / e immobile accollarsi quel tuo mare / di particelle con odore. O nel tuo / abbeverare la bellezza nel suo contorno / di polveri. Fiore - nient'altro c'è / terrestre come te che prometta / un paradiso. Nient'altro come te / s'è preso simile impronta / d'un mondo oltre il mondo / e con tremore annuncia / un lato spalancato / il perfetto infinito presente del fiorire.") e una pineta, nel suo insieme, uno stupefacente, miracoloso organismo vivente (La guardavo / stupefatta dal suo stare per dire / dal suo non dire dal suo non fiatare. / La pineta è un miracolare. / Oltre quella di là c'è intero il mare").  

 
 Mariangela Gualtieri

 Il senso del divino è addirittura nel titolo della quarta sezione, Divinità domestiche. Qui i protagonisti sono i bambini, capaci di portare come nessun altro la luce del paradiso dentro le nostre case ("Quando si sveglia / ha tracce di paradiso / sulla faccia - il bambino. / Pollini d'altro mondo"; "Eccolo, così tutto adorno / magnifico nei suoi sette anni / entrando in cucina emana uno splendore / di giovane animale, splendore / quella sua faccia nella cucina normale - / divinità penetrata / per noi venuta vicino al frigorifero"). Tenerezza, voglia di protezione, gratitudine per la trasfigurazione del reale che un bambino può donare si fondono in un tutt'uno, in versi di infinita dolcezza ("Il tuo respiro / è sentiero / che nel buio percorro / dal mio letto alla culla / dalla tua culla al mio petto / e vinco la paura. // E ti proteggo / tu che proteggi la casa / e la fai posto bello / di questo mondo. / Dormi nido rotondo / dormi mia rondinella").
 Specie con orchi e animali estatici è invece la sezione che, finalmente, cerca di mettere a fuoco l'uomo, con tutta la sua desolante debolezza, con tutta la sua pochezza e la sua ferocia ("Corpi grossi / ha la specie ora. E teste indebolite. / Si torna indietro. Ancora si prova / la scena primitiva del più forte / la scena di uno che bastona / uno comanda e un popolo / cieco lo sostiene contro se stesso"), non senza riferimenti alle meschinità politiche caratteristiche del presente ("Bussano giù al porto - i supplici. / In fuga da guerra siccità / miseria spietatezza - non sanno che ora noi / ce le cresciamo dentro, queste erbacce").
 Ma l'uomo è certo anche altro: aspirazione alla grandezza ("Abbiamo forse assaggiato / un'acqua di comete e resta celebrata in noi / tutta la turbolenza delle alture / quell'aspirare a una magnitudine / tanto immensa che forse solo / la giovinezza, solo solo / l'agonizzante / può reggere dentro di sé"), capacità di cogliere la bellezza del mondo ("fra tutte bestie ricolme di paura // questo solo animale circolava estatico / oggi nel bosco"), propensione alla generosità e alla compassione ("Piango per bene io / con cura, lenta piango e senza rumore. / Da qualche parte / qualcosa va a posto se piango").
 Tanto che l'ultima sezione, Requiem alle piccole e grandi ombre, diventa un inno all'umanità; un inno all'umanità contrapposta, con tutti i suoi difetti, all'algido profilo di un Dio lontano e onnipotente quale quello che certa tradizione ci consegna; e insieme un inno all'umanità di Dio, capace di sciogliersi nella sua misericordia, capace di scomporsi e scomparire nella persistente vitalità del creato ("Chiedo per voi, morti nostri, un'adesione / a tutta la bellezza che vediamo / crescerci intorno"; "Dunque si può. Dire mi dispiace / dire perdonate e ottenere perdono"). A comporre infine l'idea di quel problematico, onnipervasivo panteismo di cui parlavamo all'inizio.
 La migliore poesia della raccolta, per me, è La strada per tornare compresa nella sezione Animali di silenzio. Eccola:

Mi avvicino al centro 
di un fetore.
Nel campo grande una morte
spande il suo putrido canto
muto fra l'erba.
Mi proteggo il respiro.
Avanzo con spavento.

Chi giace? Chi è morto?
Portento d'aria guasta
potenza che tace e ad un tempo
grida così forte s'impone
su tutto il panorama.
Entra dentro nel dentro
della voce. Scuote. Spaventa.
Nessuna scena di morte dipinta,
ripresa, ha la forza invisibile
di quest'aria guasta.

Ecco il dopo della battaglia
quando qualche donna pietosa
cammina nel fango a rigirare i corpi
in cerca di una faccia di un soffio
o esile lamento. Questo fetore
sarà di ognuno. Ce lo portiamo
dentro. Non lo dimenticare, mi dico.

Ecco la disadorna morte. Il gran
rimpasto delle creature. Non lo dimenticare
questo disfarsi del corpo. La strada per tornare.

Giace a brandelli, solo - ciò che era
leggiadro, elegante. Fra l'erba alta giace
dentro un lezzo. Il giovane capriolo.

Voto: 7

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