domenica 3 gennaio 2021

Jan Brokken, "I giusti", Iperborea


 Lo scopo di questo libro non è banalmente celebrativo, e non consiste neppure nell'appassionata ricostruzione storica di alcuni aspetti poco noti della travagliata fase della Seconda guerra mondiale in cui i paesi baltici subirono, una dopo l'altra, le invasioni prima delle truppe dell'Armata Rossa poi delle divisioni corazzate dell'esercito nazista impegnate nell'Operazione Barbarossa (per vedere infine il ritorno dei sovietici e la perdita dell'indipendenza per i successivi cinquant'anni).
 La tensione che anima Jan Brokken è un'altra: capire e mostrare come, in circostanze assai difficili, quando tutto congiura nel risvegliare negli uomini gli istinti peggiori, o nel far sì che essi si chiudano nei loro pregiudizi, o per sopravvivere sfoderino il loro volto più egoista e opportunista, alcuni individui riescano invece a fare appello alla propria dignità, alla propria onestà, al proprio altruismo e al proprio senso di giustizia, e - rischiando in prima persona - si spendano con la massima naturalezza per aiutare chi si trova in balia di una sorte drammatica.
 La storia che viene così restituita è quella dei tanti ebrei - soprattutto di nazionalità tedesca, polacca, olandese, ceca, lituana - che riuscirono ad abbandonare l'Europa e a sfuggire ai campi di sterminio partendo da Kaunas (allora "capitale provvisoria" della Lituania, visto che Vilnius era fin dal 1920 sotto il controllo polacco), passando per Mosca e percorrendo per intero la Transiberiana fino a Vladivostok con in mano un visto di transito attraverso il Giappone, in cui era indicata come destinazione finale l'isola di Curaçao, nelle Antille olandesi.
 Il protagonista principale di questa vicenda affascinante è Jan Zwartendijk, che nel 1940 era direttore a Kaunas della filiale lituana della Philips e, del tutto casualmente, si trovò investito ad interim della carica di console olandese nei paesi baltici. 
 Zwartendijk all'epoca aveva 43 anni, e non era certo un diplomatico di professione. Nativo di Rotterdam, a sedici anni si era imbarcato per l'Inghilterra contro la volontà dei genitori, convincendoli poi a lasciarlo studiare a Reading. Ancora giovane, insieme al fratello gemello Piet, aveva ereditato dal padre una manifattura che si occupava dell'importazione e della lavorazione di the e tabacco, ma l'impresa era fallita nella turbolenta fase economica seguita alla Prima guerra mondiale. Jan aveva allora provato a stabilirsi in Sudamerica per avviarvi un'attività di import-export con l'Europa; l'iniziativa, però, non aveva avuto il successo sperato, e l'uomo era stato costretto a tornare in Olanda e a cercare un impiego. 
 Van der Hoeven, grossista internazionale di olii vegetali aveva assunto sia Piet sia Jan. Mentre il, primo era rimasto a lavorare in patria, il secondo era stato destinato allo sviluppo delle attività commerciali dell'azienda all'estero, prima a Praga. 
 Nell'atmosfera vivace e cosmopolita di Praga, Zwartendijk si era subito trovato perfettamente a proprio agio: a Praga aveva conosciuto sua moglie Erni, a Praga era stato testimone della pacifica convivenza di genti di nazionalità, etnia, religione diverse, a Praga aveva stretto amicizia con Louis Aletrino, ebreo di nazionalità olandese, corrispondente del New York Times in Europa centrale.
 La fine dell'idillio praghese fu determinato dal crollo di Wall Street del 1929; Jan fu allora trasferito ad Amburgo - dove prese in odio la Germania e i violenti discorsi dei nazionalsocialisti che cominciavano a riempire le strade e a infiammare gli animi -, ma gli affari di Van der Hoeven non migliorarono, e nel giro di qualche anno Zwartendijk si ritrovò senza lavoro.
 Passò qualche tempo prima che la Philips, che allora produceva soprattutto apparecchi radiofonici ed era in piena espansione, proponesse un nuovo lavoro a entrambi i fratelli Zwartendjik.
 L'avventura lituana di Jan cominciò solo nel 1938, quando si cominciavano a profilare i terribili avvenimenti che, di lì a poco, avrebbero sconvolto il mondo. 
 A Kaunas, Zwartendijk sovrintendeva alla fabbricazione e alla vendita di apparecchi radiofonici (la manifattura che egli dirigeva, in seguito alla nazionalizzazione da parte dei sovietici, si sarebbe trasformata nel dopoguerra nella più grande fabbrica di radio dell'intera Unione Sovietica) e dedicava alla famiglia tutto il tempo libero da impegni lavorativi (Erni gli aveva dato tre figli, e i due maggiori entravano ormai nell'adolescenza).
 
Jan Brokken
 
 La proposta della nomina a console era arrivata da parte dell'inviato a Riga del Regno d'Olanda De Decker (oggi diremmo "ambasciatore") dopo che, nel maggio 1940, i Paesi Bassi erano stati invasi dai tedeschi, il Governo olandese si era ricostituito in esilio a Londra e il vecchio console, sospettato di simpatie filonaziste, era stato indotto a rassegnare le dimissioni. 
 Da console, Zwartendijk era stato subito costretto ad occuparsi della questione dei profughi ebrei che, sospinti dall'invasione tedesca della Polonia, avevano cercato asilo in Lituania (rinfocolando, fra l'altro, l'antisemitismo di buona parte della popolazione lituana, che aveva ascendenze germaniche e temeva, più dei carri armati di Hitler, quelli di Stalin). 
 Cogliendo al volo un geniale suggerimento venuto forse da Peppy Sternheim - una profuga ebrea originaria di Amsterdam e moglie di un rabbino -, forse da Nathan Gutwirth - uno studente ventitreenne di una scuola talmudica di Viulnius con cittadinanza olandese, che conosceva Jan fin dal 1938 e con lui condivideva la passione per il calcio -, Zwartendijk trovò il modo di accontentare gli ebrei che volevano lasciare il Paese per sfuggire alla morsa letale dei nazisti e dei sovietici (con l'intenzione di dirigersi verso le Indie olandesi). La formula da lui studiata prevedeva non un permesso formale per recarsi a Giava o a Sumatra - assai difficile da ottenere -, ma un visto in cui si diceva esplicitamente che "non era loro impedito" l'ingresso nella colonia olandese di Curaçao.
 Perché il piano avesse successo fu fondamentale la collaborazione di un altro console di stanza a Kaunas, quello giapponese Chinue Sugihara che, sfidando la possibile opposizione del suo stesso Governo (alleato di Hitler e di Mussolini), accettò di sottoscrivere il visto di transito attraverso il Giappone per i profughi in possesso dell'autorizzazione a dirigersi a Curaçao. 
 Nei mesi di luglio e agosto del 1940 - prima della definitiva chiusura delle sedi diplomatiche di Paesi Bassi e Giappone a Kaunas per volontà delle autorità sovietiche, che avevano preso possesso dei paesi baltici -, Zwartendijk e Sugihara, di comune accordo, lavorarono ininterrottamente per produrre un numero incredibile di visti (più di 3mila, secondo i calcoli più prudenti, che consentirono l'espatrio ad almeno 10mila persone, visto che i documenti emessi riportavano esclusivamente il nome del "capo famiglia") che consentissero ai richiedenti di attraversare l'URSS, di passare in nave da Vladivostok a Tsuruga, in Giappone, e da qui spostarsi a Kobe (o, più raramente, a Tokyo o a Yokohama). 
 Naturalmente era impossibile che tutti quei profughi trovassero realmente rifugio nell'isoletta di Curaçao. Dopo alcune settimane di attesa, i più fortunati riuscirono a imbarcarsi su navi dirette negli Stati Uniti; gli altri - la maggior parte - vennero invece ridistribuiti tra la Birmania e Shanghai dove, nel quartiere di Hongkou, venne creato una sorta di ghetto in cui numerosissimi profughi ebrei attesero che finisse la guerra in condizioni tutt'altro che facili, ma per nulla paragonabili a quelle dei campi di concentramento europei.
 Alcuni studiosi sostengono che il totale dei discendenti di coloro che sopravvissero alla Shoah grazie all'opera di Zwartendijk (passato alla storia come "The Angel of Curaçao"), di Sugihara e di altri "giusti" che supportarono o fecero proprio lo stratagemma da essi creato (si possono citare i consoli dei Paesi Bassi a Stoccolma e a Kobe, A.M. de Jong e Nicolaas de Voogd, o l'ambasciatore polacco in Giappone Tadeusz Romer) ammonti oggi a circa 100mila persone!
 Paradossale è il fatto che il contributo di Zwartendijk (la cui iniziativa avrebbe potuto esporlo alla rappresaglia dei nazisti, una volta richiamato nei Paesi Bassi occupati dalle truppe tedesche) alla salvezza di molti profughi ebrei fu a lungo misconosciuto, e che nel dopoguerra egli subì addirittura una sorta di reprimenda da parte del Ministero degli Esteri dei Paesi Bassi per aver violato le regole della correttezza diplomatica esercitando il proprio ruolo a Kaunas. 
 Solo molti anni dopo la sua morte, grazie alle testimonianze di diversi sopravvissuti, il suo nome - insieme a quello di Chinue Sugihara, fu incluso nello Yad Vashem fra quello dei "Giusti tra le nazioni", i non ebrei che, a rischio della propria vita e senza interesse personale, si adoperarono per salvare dal genocidio nazista anche un solo ebreo.
 Jan Brokken - dopo aver intervistato i superstiti, visitato i luoghi, frequentato coloro che conobbero Jan Zwartendijk, prima fra tutti sua figlia Edith - ricostruisce questa storia singolare con estrema meticolosità e con grande gusto narrativo, come suo costume lasciandosi portare lontano, via via, dalle parabole esistenziali di tutti coloro che con Zwartendijk ebbero a che fare (ricordo ad esempio l'anticonformista sorella di Jan, Didi, donna colta, generosa ed emancipata, critica d'arte per un giornale olandese; o il vulcanico Louis Aletrino, ucciso dai nazisti mentre tentava di fuggire dal campo di concentramento di Mauthausen; o Fritz Philips, che si trovò a gestire la "multinazionale di famiglia" negli anni dell'occupazione tedesca, barcamenandosi tra le fortissime pressioni del commissario che gli occupanti gli avevano affiancato, la lealtà nei confronti del Governo olandese in esilio, la volontà di salvaguardare i dipendenti dell'azienda - anche quelli ebrei - sottraendoli alle grinfie dei nazisti), o che grazie al visto per Curaçao si salvarono (vale la pena di nominare la piccola Nina Wertans fuggita attraverso la Transiberiana, rifugiatasi con la madre a Shanghai e trasferitasi nel dopoguerra negli Stati Uniti, dove si sarebbe laureata in Scienze politiche a New York e avrebbe conosciuto e sposato Nahum Admoni, futuro direttore del Mossad).
 Dal ponderoso, documentatissimo volume dello scrittore olandese (il libro conta più di 600 pagine) sembra emergere soprattutto la volontà di dimostrare come la rettitudine, l'amore per la giustizia e persino l'eroismo non siano doti da superuomini, ma derivino direttamente dalla razionalità, dal senso di responsabilità, dal rispetto per se stessi, dal rifiuto di essere schiavi di qualsiasi pregiudizio, e come tali qualità siano di solito associate all'estrema sobrietà di chi ne è portatore. 

In poche parole: il libro ricostruisce con estrema meticolosità e grande gusto narrativo la storia di Jan Zwartendijk, "l'angelo di Curaçao", il console olandese a Kaunas che, nel 1940, riuscì con uno stratagemma a individuare una peregrina via di salvezza per migliaia di profughi ebrei che, senza il suo aiuto, sarebbero inesorabilmente caduti vittime del genocidio perpetrato dasi nazisti. Accanto alla figura sobria e affabile del console emergono quelle di tutti coloro che con lui collaborarono affinché la giustizia, l'altruismo, la tolleranza e la rettitudine avessero la meglio sulla prepotenza di chi riteneva che simili valori non dovessero più trovare cittadinanza in questo mondo. Tutti costoro sembrano insegnarci una cosa importante: l'eroismo non è una qualità da superuomini, ma è quasi sempre figlio del pudore, dell'onestà intellettuale e della semplicità. 
 
Voto: 6,5

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