domenica 28 febbraio 2021

Benjamin Labatut, "Quando abbiamo smesso di capire il mondo", Adelphi

 
 Per qualcuno la scienza è quasi una religione, per altri soprattutto un abito mentale, per altri ancora una convenzione provvisoria; lo scrittore cileno Benjamin Labatut la vede invece come una sorta di castello dei destini incrociati in cui, sulla base del vasto e aleatorio dominio delle coincidenze e delle supposizioni, prende corpo ciò che chiamiamo realtà. 
 Quest'idea scaturisce direttamente da quello scollamento tra senso comune ed evidenza sperimentale, tra calcolo matematico e certezza previsionale, tra progresso della conoscenza e armonia interpretativa, che rappresenta il tratto connotativo della fisica novecentesca e della meccanica quantistica in particolare.
 Lo sviluppo di Un verdor terrible (intitolato nella versione italiana Quando abbiamo smesso di capire il mondo) traduce in chiave narrativa questa visione del progresso scientifico e dell'universo: il libro è composto di cinque pezzi narrativi, ciascuno dei quali è focalizzato principalmente su uno o più personaggi di spicco della storia della matematica, della chimica o della fisica moderne, le cui scoperte vengono ripercorse e presentate, da una parte, come il risultato di una serie di circostanze - per lo più fortuite - derivanti dalla biografia ampiamente romanzata dei protagonisti; dall'altra come gli snodi fondamentali di una più vasta serie di storie, ciascuna delle quali cresce autonomamente sul casuale riferimento che l'ha generata. 
 In questo senso - prendendo a prestito un termine botanico -, possiamo dire che ognuno dei racconti presenta una struttura rizomatica: dal fusto principale la narrazione si espande in più direzioni, generando aneddoti che, crescendo su stessi, acquistano la stessa importanza della storia originaria.
 Consideriamo il primo dei racconti, quello intitolato Blu di Prussia: partendo dal cianuro usato da molti gerarchi nazisti per suicidarsi alla fine della Seconda guerra mondiale - e su cui si basava anche lo Zyklon B, il gas usato per assassinare molte delle loro vittime nei campi di sterminio - l'autore prende a parlare dello Zyklon A, l'antenato del famigerato veleno, usato in California come pesticida per disinfestare i vagoni ferroviari sui quali, nei primi decenni del XX secolo, migliaia di migranti messicani si nascondevano per entrare clandestinamente negli Stati Uniti. Quei vagoni finivano per essere tinti di un meraviglioso colore blu. L'acido cianidrico, o acido prussico, infatti, fu ricavato per la prima volta nel 1782 dal primo pigmento sintetico moderno, il blu di Prussia, inventato all'inizio del XVIII secolo dallo svizzero Johann Jecob Diesbach, mentre cercava un metodo per riprodurre il costosissimo carminio.
 Da queste considerazioni prende l'abbrivio una lunga catena di storie. A ricavare dal blu di Prussia l'acido prussico ("il veleno più importante della modernità") fu Carl Wilhelm Scheele, un geniale protochimico, scopritore di vari elementi della tavola periodica, che aveva la cattiva abitudine di annusare e, a volte, assaggiare, i suoi preparati; un comportamento che, ripetuto con l'arsenico, gli costò la vita a soli quarantatré anni (d'altra parte, le tossine di questa sostanza, usata all'epoca come tintura, provocarono probabilmente anche il cancro di cui morì Napoleone a Sant'Elena, dopo averle respirate per sei anni dalla tappezzeria della camera in cui era prigioniero).
 
Benjamin Labatut
 
 Scheele non poteva certo immaginare dove avrebbe portato un secolo e mezzo dopo la sua scoperta, impiegata per scopi bellici. E' pur vero che Hitler, che non era abituato a farsi scrupoli in nessuna circostanza, non volle usare i gas quando attaccò l'Inghilterra nel 1940; forse, avendo partecipato alla Prima guerra mondiale, era memore del panico suscitato nei soldati nelle trincee dai gas, utilizzati come arma letale per la prima volta nel 1915 a Ypres per iniziativa del chimico tedesco di origini ebraiche Fritz Haber.
 La storia di Haber è un esempio perfetto del diverso impiego e dei differenti esiti che possono avere le scoperte scientifiche dovute al genio di un uomo: egli infatti, non solo inventò l'iprite (e pare che sua moglie si suicidò, quando venne a sapere degli effetti terribili sui soldati dell'arma messa a punto dal marito), ma contribuì in prima persona a creare anche lo Zyklon, il pesticida potente come un ciclone (da qui il nome) con il quale, anni dopo, sarebbero stati uccisi nelle camere a gas la sorellastra, il cognato e i nipoti. 
 D'altra parte, egli formulò nel 1907 un procedimento per estrarre azoto direttamente dall'aria - una scoperta che gli valse il premio Nobel -, risolvendo da un giorno all'altro il problema della scarsità di fertilizzanti che, al principio del XX secolo, esponeva il mondo al rischio di una carestia di proporzioni colossali, capace di determinare la morte per fame di centinaia di milioni di persone. Per paradosso, egli morì nel 1934 convinto che proprio l'estrazione dell'azoto dall'aria avrebbe portato alla rovina dell'umanità, alterando l'equilibrio naturale del pianeta.
 In maniera simile si sdipanano anche gli altri racconti: La singolarità di Schwarzschild parla del matematico tedesco che, mentre si trovava in trincea, sotto le bombe dei nemici, in quella Prima guerra mondiale per la quale - come molti altri intellettuali - era partito volontario e durante la quale sarebbe morto, diede la prima soluzione esatta alle equazioni della teoria della Relatività generale di Albert Einstein: la "singolarità di Schwarzschild" (il risultato del processo per cui una stella gigante collassa su se stessa una volta esaurito il suo combustibile) diventa la prima prova matematica che consente di preconizzare l'esistenza dei buchi neri, anche se Karl Schwarzschild stesso rimane perplesso e quasi spaventato di fronte al risultato dei suoi calcoli, nonostante tutta la sua vita e la sua carriera di astrofisico fosse stata vissuta all'insegna della stranezza, della sfida teorica a ciò che sembrava impossibile. 
 Il cuore del cuore narra invece degli spiriti gemelli di Shinichi Mochizuki e di Alexander Grothendieck, entrambi matematici capaci di raggiungere vertiginosi livelli di elaborazione teorica per poi ritrarsi, bizzarramente terrorizzati dalle loro scoperte, allontanandosi dalla loro disciplina e isolandosi dalla comunità scientifica; quasi pensassero di dover espiare una colpa misteriosa.
 L'eponimo Quando abbiamo smesso di capire il mondo è il racconto più lungo ed elaborato della raccolta, e ripercorre le tappe principali della nascita della meccanica quantistica, immaginando le scoperte su cui si fonda come frutto di una sorta di sortilegio, e coloro che le elaborarono quasi come maghi dominati da una potenza misteriosa e maligna: così l'enfant prodige Werner Heisenberg, che giunse all'idea del principio di indeterminazione attraverso le sgraziate matrici elaborate nell'isola di Helgoland, dove si era rifugiato per sottrarsi alla terribile allergia che lo tormentava. Così il fragile principe de Broglie, che nella sua tesi di dottorato sostenne che tutti gli atomi si comportano sia come onde sia come particelle. Così il trasgressivo Erwin Schrodinger che viene rappresentato mentre, in un sanatorio sulle Alpi, suggestionato dal fascino della giovane figlia del medico che lo ha in cura, disordinatamente elabora un'equazione che egli stesso fatica a capire, ma che compendia il comportamento ondulatorio dell'elettrone entro gli orbitali in cui è provvisoriamente confinato. 
 I tre, agendo indipendentemente uno dall'altro, grazie anche alla supervisione e agli stimoli di Niels Bohr, finiranno per creare quasi loro malgrado un nuovo campo di studi capace di restituire un'immagine della realtà talmente stravolta da sconcertare persino Einstein.
 L'ultimo racconto, Il giardiniere notturno, è autobiografico, e spiega da dove sia venuto all'autore lo spunto per scrivere questo libro.
 Il libro è indubbiamente affascinante, anche se, nella sua continua, evidente ricerca di un accentuato glamour letterario, finisce per avere un po' troppo sapore di laboratorio, e per perdere di naturalezza e fluidità. Il mondo è indubbiamente complesso e difficilmente comprensibile; ogni tanto Labatut dà l'impressione di volerlo presentare ancora più oscuro di quanto non sia per il semplice gusto di strabiliare i buoni borghesi. E così, perde qualcosa per strada.
 
In poche parole: per qualcuno la scienza è quasi una religione, per altri soprattutto un abito mentale, per altri ancora una convenzione provvisoria; lo scrittore cileno Benjamin Labatut la vede invece come una sorta di castello dei destini incrociati in cui, sulla base del vasto e aleatorio dominio delle coincidenze e delle supposizioni, prende corpo ciò che chiamiamo realtà. Quest'idea scaturisce direttamente da quello scollamento tra senso comune ed evidenza sperimentale, tra calcolo matematico e certezza previsionale, tra progresso della conoscenza e armonia interpretativa, che rappresenta il tratto connotativo di tutta la fisica novecentesca e della meccanica quantistica in particolare. Lo sviluppo di Un verdor terrible (intitolato nella versione italiana Quando abbiamo smesso di capire il mondo) traduce in chiave narrativa questa visione dell'evoluzione della scienza e dell'universo. Il libro è indubbiamente affascinante, anche se, nella sua continua, evidente ricerca di un accentuato glamour letterario, finisce per avere un po' troppo sapore di laboratorio, e per perdere di naturalezza e fluidità. Il mondo è indubbiamente complesso e difficilmente comprensibile; ogni tanto Labatut dà l'impressione di volerlo presentare ai suoi lettori ancora più oscuro di quanto non sia per il semplice gusto di strabiliare i buoni borghesi.

Voto: 6

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