domenica 28 marzo 2021

Piero Camporesi, "Le vie del latte", il Saggiatore

 

 Ripubblicato da poco per i tipi del Saggiatore a più di 25 anni dalla sua prima uscita, Le vie del latte esemplifica alla perfezione il concetto di cultura che aveva Piero Camporesi: un vasto campo di studi in cui sono implicati tutti i saperi, le sensibilità e le facoltà umane. 
 Così, sebbene la prospettiva prediletta dall'autore sia quella che fa partire le sue speculazioni dalla messa a fuoco di episodi afferenti alla storia della gastronomia e del costume, una straordinaria quantità di nozioni riferibili alle più diverse discipline rientrano nelle vicende che egli ricostruisce: lunghi gustosi excursus nutriti di curiosità aneddotiche e di uno sguardo sul mondo consapevole della propria originalità.
 Il libro si compone di tre saggi distinti: il primo, intitolato La via lattea, prova a ricostruire l'importanza del latte sia dal punto di vista nutritivo sia dal punto di vista simbolico per buona parte dei popoli della terra. Il latte ha rappresentato per secoli uno dei cardini dell'alimentazione di quasi tutte le genti indoeuropee - nomadi e stanziali -, dai Latini ai Celti ai Finni, agli Slavi ai Mongoli; solo le popolazioni dell'estremo oriente risultano piuttosto lattofobe che lattofile, tanto che la Grande Muraglia eretta a difesa del Celeste Impero ha costituito per secoli un confine tra i popoli che riconoscevano l'importanza del latte e quelli "refrattari se non ostili a burro, formaggio, latte".
 Dal punto di vista antropologico, il latte veniva anticamente onorato dai popoli lattofili come fonte di vita, con un afflato quasi religioso; lo si riteneva imparentato con l'acqua e col sangue, dotato addirittura di virtù medicinali e comunque capace di donare sempre forza e vigore a chi ne bevesse. 
 Nell'Europa premoderna e moderna, fondamentale veniva considerato il ruolo delle balie, perché si credeva che il latte con cui venivano nutriti i neonati contribuisse a forgiare il carattere - oltre che a determinare la robusta costituzione - degli uomini che sarebbero diventati. Le balie venivano quindi scelte con cura, e ci si preoccupava che seguissero sempre una dieta adeguata all'importanza della loro funzione.
 Nel corso della storia - oltre al burro, al formaggio, allo yogurt -, da parte dei popoli delle steppe e da quelli abitanti le regioni caucasiche, dal latte sono stati estratti persino dei sieri dal sapore acidulo, bevuti in alcuni casi al posto del vino, quasi a fare del liquido bianco un alimento totale. 
 Del resto, la grande vacca lattifera che s'inarca lungo l'orizzonte a nutrire con le sue pendule mammelle uomini e animali era una delle divinità centrali del pantheon egizio; mentre in tempi più recenti, Jean-Jacques Rousseau ha compiuto un appassionato elogio del latte, emblema per eccellenza della purezza del primitivismo alimentare in opposizione alla perversione della cucina francese moderna - e alla gourmandise parigina in particolare -, basata sul consumo di carne. Il tutto a testimoniare una fortuna ininterrotta, appena incrinata dalle mode dietetiche contemporanee.
 Alcuni passi della trattazione - quelli in cui si fa riferimento al tradizionale consumo di latte da parte degli abitanti della Pianura Padana - mi hanno riportato alla mia infanzia, all'epoca in cui ogni sera facevo tappa a casa di mio nonno materno, a farmi riempire una bottiglia di vetro col latte appena munto dalle vacche (rigorosamente di razza frisona) ricoverate nella stalla lì accanto; latte che avremmo bevuto il giorno successivo dopo averlo bollito, a compiere un artigianale processo di pastorizzazione. Ricordo il secchio pieno del liquido bianco e schiumante ancora caldo, e il mestolo con il quale da esso si pescava...
 
Piero Camporesi
 
 Il secondo saggio s'intitola Il padano Petrarca ed è senz'altro il più curioso dal punto di vista narrativo. Vi si raccontano gli anni maturi di Francesco Petrarca che, già poeta laureato, dopo il periodo avignonese e quello passato a Valchiusa, approdò a Milano nel 1353 - fra le critiche degli amici fiorentini, che consideravano il Biscione nemico del Giglio - su invito di Giovanni Visconti, per il quale avrebbe svolto numerose missioni diplomatiche viaggiando dentro e fuori l'Italia, ma soprattutto attraversando più volte la pianura da una città all'altra. 
 Sebbene il Petrarca, attentissimo alla propria immagine pubblica, amasse apparire soprattutto come un uomo capace di far rivivere le antiche virtù del mondo classico - reincarnandole -, e raccontasse di sé quasi solo quello che gli permetteva di rientrare in questo stereotipo, possiamo ricostruire abbastanza bene le abitudini del poeta e il suo stile di vita attraverso le lettere degli amici e le testimonianze di chi lo incontrò e lo conobbe. 
 Francesco Petrarca si spostava di frequente, a cavallo o - preferibilmente - sfruttando le numerose vie d'acqua praticabili che solcavano allora la pianura. Amava molto il giardinaggio e, nel suo orto presso Sant'Ambrogio, sperimentava nuovi innesti o la messa a dimora di piante non autoctone: si sa con certezza che per ben due volte cercò, senza successo, di far crescere sotto il cielo di Lombardia alberi d'ulivo accanto all'alloro, che coltivava con amore, oltre che per le sue intrinseche virtù, in quanto simbolo arboreo della sua gloria poetica.
 Le sue abitudini alimentari erano improntate alla massima sobrietà: esse contemplavano pesce d'acqua dolce (allora abbondantissimo in Pianura Padana), vegetali, zuppe liquide, polenta di granturco, piccola cacciagione; prevedevano raramente il consumo di vino (bevanda che Petrarca prese a praticare solo negli ultimissimi anni, preferendo la purezza dell'acqua di fonte) e, in generale, non si scostavano troppo da quelle della maggior parte degli umili contadini che popolavano la pianura.
 Non poco a disagio lo mettevano la rozzezza e l'opulenza delle tavole riccamente imbandite presso la corte viscontea: come quando, il 15 giugno del 1368, fu costretto a partecipare al banchetto per le nozze di Violante - figlia di Galeazzo Visconti e di Bianca di Savoia - con Lionello Plantageneto, duca di Chiarenza. Il pranzo, ricostruito nel dettaglio all'inizio del Cinquecento dallo storico Bernardino Corio, prevedeva ben 18 portate, inframmezzate da sfilate "di bracchi, di levrieri, di falchi, di astori, di sparvieri incappucciati, di corsieri sbuffanti e di lustri, placidi e grassi buoi, di corazze e di armature d'argento, di bacili di pietre preziose, di vesti guarnite da splendide perle, di mantelli foderati d'ermellino, di selle decorate con le armi viscontee e plantagenetiche". Questa descrizione costituisce uno straordinario esempio delle più sostanziose consuetudini gastronomiche della Lombardia feudale, ma c'è da credere che il banchetto mise in difficoltà l'eximio poeta.
 L'ultimo saggio, Mediterraneo e dieta padana, rappresenta una polemica disquisizione contro la moda della dieta mediterranea, considerata un falso storico, un "codice dietetico artificiale", un lezioso "vangelo della buona novella alimentare" che non trova riscontro alcuno nella realtà. 
 Per Campore,si, "se è vero che esistono molteplici sistemi alimentari e diversissime cucine mediterraneee che possono in qualche modo essere lontanamente apparentate, le differenze fra costa e costa, fra paese e paese rimangono fortissime. Fra la mielata e agrodolce Catalogna e la piccante Andalusia, fra la cucina dalmata e quella turca, fra quella dei paesi arabo-musulmani del Nordafrica e la cucina provenzale-occitanica (per non parlare di quella ligure o campana o pugliese) le disparità appaiono enormi".
 Guardando poi semplicemente alle documentatissime tradizioni italiche, le carni della Sardegna pastorale, i condimenti di tutto il settentrione - basati sul lardo, sullo strutto o sul burro e non certo sull'olio d'oliva -, l'oca in onto dei piemontesi, i "macaroni" veneti (gnocchi galleggianti nel burro fuso e ricoperti di formaggio), i risotti, le polpette e la cazzeura milanese, le paste fresche di grano tenero della bassa padana, la polenta, lo storione del Po, il carpione del Garda, le trote, le tinche, i persici, i lucci, le anguille pescate nei laghi, nei fiumi e nei fossi, i gamberi d'acqua dolce e, ancora, le rane sono tutte cose estranee all'oleografia paraturistica di quella dieta mediterranea che si pretende tipicamente "nostra".
 Così, con argomentazione serrata, dovizia di citazioni e travolgente eloquenza, Camporesi spazza via luoghi comuni e cliché infondati, che si parli di gastronomia o di letteratura, di storia o di antropologia, di geografia o di filosofia.
 
In poche parole: il libro composto da tre saggi: La via lattea contrappone l'importanza simbolica e alimentare del latte per la maggior parte dei popoli indoeuropei, "lattofili", alla refrattarietà di fronte al latte e ai suoi derivati dei popoli dell'estremo oriente, posti oltre la Grande Muraglia. Il padano Petrarca racconta i lunghi anni in cui Petrarca fu a Milano, al servizio dei Visconti, viaggiò per tutte le città dell'Italia settentrionale e si adattò alle abitudini padane - pur con qualche idiosincrasia dal punto di vista gastronomico - dedicandosi volentieri ad esperimenti botanici. Mediterraneo e dieta padana è una appassionata, polemica disquisizione contro la moda della dieta mediterranea, considerata un falso storico che non trova giustificazione alcuna nelle tradizioni gastronomiche italiche: un "codice dietetico artificiale". 
Il testo esemplifica alla perfezione il concetto di cultura che aveva Piero Camporesi: un vasto campo di studi in cui sono implicati tutti i saperi, le sensibilità e le facoltà umane. Sebbene la prospettiva prediletta dall'autore sia quella che fa partire le sue speculazioni dalla messa a fuoco di episodi afferenti alla storia della gastronomia e del costume, una straordinaria quantità di nozioni riferibili alle più diverse discipline rientrano nelle vicende che egli ricostruisce: lunghi gustosi excursus nutriti di curiosità aneddotiche e di uno sguardo sul mondo consapevole della propria originalità, nel corso dei quali - con argomentazione serrata, dovizia di citazioni e travolgente eloquenza - Camporesi spazza via luoghi comuni e cliché infondati; che si parli di gastronomia o di letteratura, di antropologia o di geografia.

Voto: 6,5

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