domenica 30 maggio 2021

Jonathan Franzen, "E se smettessimo di fingere?", Einaudi

 

 In questo piccolissimo libro, che riproduce il testo di un articolo pubblicato sul "New Yorker" e quello di un'intervista rilasciata da Jonathan Franzen a Wieland Freund, l'autore sostiene - in maniera non semplicemente provocatoria, ci assicura - una tesi sconvolgente per chiunque coltivi una coscienza ecologica sviluppata sulla base dei parametri faticosamente definiti negli ultimi decenni: la catastrofe climatica è qualcosa che non possiamo più evitare.
 Studi recenti stabiliscono infatti che per scongiurare quell'aumento della temperatura terrestre che da qui a trent'anni provocherà una radicale e permanente modifica della fisionomia di tutte le aree climatiche presenti oggi sul pianeta, spazzerà via interi ecosistemi e renderà più difficile la vita di miliardi di uomini e di quasi tutte le specie animali, le emissioni di anidride carbonica avrebbero dovuto essere praticamente azzerate già quarant'anni fa. 
 Ora, questo assunto cambierebbe radicalmente prospettive e strategie della battaglia di tutti coloro che hanno a cuore l'ambientalismo e predicano uno stile di vita più "verde", e il giudizio sui target di tutta quella parte virtuosa della politica che cerca di farsi carico dei problemi ecologici. Gli obiettivi di una riduzione parziale delle emissioni fissati attraverso travagliatissimi accordi internazionali non da tutti sottoscritti e continuamente corretti - passando per nobili dichiarazioni d'intenti, pressioni dei lobbisti, strenua difesa di interessi economici di parte, piccoli progressi, temporanee resipiscenze, trionfalistiche rivendicazioni del successo ottenuto per ogni minuscola concessione strappata ai Paesi che più inquinano -, secondo Franzen, non servono a nulla se non a far perdere tempo.
 Agire oggi, anche in maniera molto drastica (cosa peraltro realisticamente impossibile, viste le molte resistenze dei tanti gruppi di interesse coinvolti, capaci di rallentare se non di bloccare la più timida iniziativa concretamente volta alla salvaguardia dell'ambiente), non consentirebbe di arrestare un cambiamento già in atto, e forse neppure di ritardarlo: entro pochissimi decenni - dunque durante l'esistenza della maggior partre degli uomini che sono già adulti oggi - gran parte dei ghiacci presenti ai poli e sulle catene montuose al di sopra dei 3000 metri sul livello del mare si scioglierà; vaste aree della terra si desertificheranno; il livello degli Oceani si alzerà, e alcune città costiere saranno sommerse; i cicloni e le tempeste di tipo tropicale diventeranno più frequenti e più violenti anche nelle zone fino ad oggi considerate temperate; nelle aree agricole, la coltivazione di molti prodotti diventerà più difficile, e si verificheranno più spesso tragiche carestie con ripercussioni a livello globale; imponenti migrazioni di milioni di uomini, dovute alla progressiva inabitabilità di zone ad antico insediamento umano, saranno presto eventi abituali.
 
Jonathan Franzen
 
 Che fare, dunque? Per Franzen, cominciare a dirci con franchezza queste cose, smettere di raccontarci bugie sulla possibilità di evitare il disastro, oltre ad essere l'atteggiamento più onesto dal punto di vista filosofico, è un passo indispensabile per prepararci ad affrontare meglio la situazione non facile (per usare un eufemismo) che si verrà a creare.
 Prepararci ad affrontare la nuova situazione vuol dire innanzitutto accantonare la speranza che il nostro futuro potrà essere roseo, sradicare la convinzione che il domani sarà indefettibilmente meglio dell'oggi. Niente di tutto ciò; piuttosto, bisogna mettersi in testa che è necessario giocare in difesa ed essere solidali, se non vogliamo precipitare nell'apocalisse.
 Da una parte, occorrerà prendere provvedimenti razionali per minimizzare gli effetti dei cambiamenti climatici sui processi naturali (e quindi fare investimenti pubblici per costruire infrastrutture capaci di ridurre il rischio idrogeologico nelle regioni del pianeta più esposte a disastri ambientali, prevedere il trasferimento della popolazione delle città costiere la cui situazione appare più precaria, studiare sementi più produttive e più resistenti ai mutamenti termici e ai capricci atmosferici, e modi di coltivazione che mettano i raccolti il più possibile al riparo dalle asprezze del clima, ecc.). 
 Dall'altra, per scongiurare le conseguenze indirette di tali cambiamenti sulle comunità umane ed evitare sanguinosissimi conflitti su vasta scala, dovremo abituarci a "stringerci" nello spazio vitale residuo e a condividere le risorse: l'ondata dei migranti climatici in marcia dai Paesi più poveri a quelli più ricchi, messi in moto dall'incapacità di questi ultimi di agire per tempo per scongiurare gli effetti più drastici del cambiamento in atto, costituirà una marea non più arginabile; se vogliamo mantenere la nostra umanità e continuare a fondare il nostro stile di vita sul rispetto della libertà e dei diritti fondamentali dell'individuo, dovremo quindi necessariamente ridurre le nostre pretese in funzione di una più equa distribuzione dei beni fondamentali disponibili. 
 Un sfida - come è facile capire,vista la mentalità oggi dominante - tale da far tremare le vene e i polsi.
 Quale credito dare all'opinione, pure suffragata da numerosi studi e da proiezioni scientifiche dei mutamenti in atto sul prossimo futuro, sostenuta da uno dei più autorevoli scrittori americani contemporanei? Difficile dirlo.
 Io non so se Franzen abbia ragione, perchè non possiedo gli elementi necessari per stabilire quanto siano fondate le ricerche che vorrebbero il processo degenerativo innescato dall'anidride carbonica dispersa dall'uomo nell'atmosfera irreversibile nel medio periodo. Sospetto però - vista l'evidenza degli effetti del cambiamento climatico in corso e la resistenza di gran parte dei politici e dei detentori del potere economico ai provvedimenti necessari per cambiare rotta - che gli scenari da lui prospettati possano non essere così peregrini.
 Diciamo che un atteggiamento improntato saggiamente alla massima prudenza vorrebbe che si operasse quantomeno su due livelli: da una parte, continuare a fare pressione per costruire una consapevole coscienza ecologica nelle popolazioni e per limitare e poi eliminare (a poco a poco, se i nostri assetti economici non permettono di fare altrimenti) le emissioni di anidride carbonica nell'atmosfera. Se c'è anche solo una possibilità di scongiurare o ritardare per questa via la catastrofe climatica, essa va colta.
 D'altra parte, bisogna cominciare ragionare sui provvedimenti necessari per limitare i danni qualora la catastrofe sia davvero ormai inevitabile: in presenza di una coscienza ecologica più diffusa e più strutturata, anche i sacrifici necessari per perseguire questa seconda via risulterebbero meno indigesti.
 L'importante è rendersi conto che in questo caso è in gioco moltissimo, forse tutto: dire semplicemente "chi vivrà vedrà" non basta più. 
 
In poche parole: uno dei più autorevoli scrittori americani contemporanei sostiene in questo piccolo libro una tesi sconvolgente ma non troppo peregrina: la catastrofe climatica che da decenni si paventa è oggi, di fatto, inevitabile. Anziché continuare ad accapigliarsi su provvedimenti che, lungi dal poterla scongiurare, non sarebbero in grado neppure di ritardarla in maniera significativa, la politica dovrebbe cominciare a pensare a come limitare i danni di mutamenti che sono già in atto e che - se non affrontati con consapevolezza ed efficacia - potrebbero avere effetti apocalittici. Franzen avrà ragione o no?
 
Voto: 7 

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