venerdì 28 agosto 2015

Reginald Arkell, "Memorie di un vecchio giardiniere", Elliot



 Con questo titolo abbastanza didascalico viene tradotto in italiano Old Herbaceous (vale a dire “Il vecchio Gramigna”, dal soprannome del protagonista), un raffinato romanzo del 1950 che in Gran Bretagna è considerato un piccolo classico, mentre da noi è stato pubblicato solo pochi anni fa grazie a una lodevole iniziativa editoriale della Elliot.
 Si tratta della storia di Bert Pinnegar, un trovatello con una gamba più corta dell’altra, nato sul finire dell’epoca vittoriana nel Gloucestershire, che sotto la guida della direttrice della scuola del villaggio, Mary Brain – “la più esperta conoscitrice di fiori selvatici della contea” –, impara a esplorare la campagna e ad amare le piante e i fiori, tanto da arrivare a vincere a sorpresa il seguitissimo concorso all’annuale mostra floreale.
 Questo successo, insieme ad alcune altre circostanze fortunate e agli incontri giusti, strapperanno il piccolo Bert alla carriera di carrettiere, bovaro o contadino a cui pareva ineluttabilmente destinato come tutti i figli del popolo al termine della loro breve esperienza scolastica nella seconda metà dell’Ottocento, aprendogli le porte del meraviglioso giardino dell’aristocratica villa degli Charteris, al quale avrà accesso come semplice lavorante.
 Da questo eden privato il timido ragazzo non uscirà più: grazie alla passione, alla laboriosità e all’abilità mostrate, crescerà e poi invecchierà a contatto con la natura, adeguandosi ai suoi ritmi, assecondandone gli indomabili capricci e nel contempo apprendendo tutte le tecniche per piegarne il rigoglio alle esigenze degli uomini; diventerà infine “Il vecchio Gramigna” leggendario capo-giardiniere della tenuta, professionista universalmente ammirato, uomo originale e caparbio, giudice temuto e rispettato in tutti i concorsi florovivaistici della regione, capace di trattare con assoluta famigliarità la sofisticata signora Charteris, alla quale rimarrà vicino fino all’estrema vecchiaia di entrambi.

 Peter Macqeen nei panni di Bert Pinnegar durante la rappresentazione di una trasposizione teatrale del romanzo

 Durante l’arco di tempo della vita di Bert, l’Inghilterra affronterà due guerre e innumerevoli cambiamenti epocali, che naturalmente giungeranno a far sentire le proprie conseguenze anche sul microcosmo costituito dal villaggio, dalla villa nobiliare e dal suo grande parco; ma, o vi arriveranno come attutiti, o appariranno qualcosa di frivolo, passeggero e poco rilevante rispetto ai ritmi della natura e alla sua inesauribile facoltà di generare bellezza attraverso le forme, i colori e i profumi di un giardino.
 La virtù principale del libro è lo straordinario senso di levità, di placidità e di grazia che riesce a sprigionare in ogni suo passaggio attraverso una scrittura semplice e fresca, sospesa tra la sottile, bonaria ironia della voce del narratore e l’autenticità e la vivacità del punto di vista di Bert: così, persino l’elenco dei fiori scelti per orlare un sentiero, riempire un’aiuola o costruire una composizione può lasciarne intuire la fragranza e riesce quasi ad acquistare un rilievo lirico (stuzzicando magari la curiosità del lettore che non è un botanico o un esperto di giardinaggio fino a spingerlo fare ricerche sull’aspetto e sulle caratteristiche dei fiori nominati, come personalmente mi è più volte venuta voglia di fare).

Voto: 7

domenica 23 agosto 2015

Lars Gustafsson, "L'uomo sulla bicicletta blu", Iperborea


 Secondo quanto dichiarato dall’autore stesso, questo è un libro costruito attorno ad alcune fotografie scattate dal padre di Lars Gustafsson negli anni venti del Novecento, interpretate basandosi sul loro potere evocativo.
 La vicenda raccontata si svolge in una giornata di ottobre del 1953: la guerra con i suoi orrori è ormai da tempo alle spalle, e le angosce e le miserie che angustiano gli uomini non assumono più carattere collettivo ed epocale, bensì episodico ed individuale.
 Protagonista del romanzo è Jan Victor Frieberg, un uomo che ha da poco doppiato la boa dei quarant’anni, e di mestiere fa il rappresentante; in sella a una bicicletta blu, trasportando sul portapacchi una enorme e pesantissima valigia, gira nella desolazione dell’autunno le fattorie del sud della Svezia cercando di vendere il nuovo, rivoluzionario robot da cucina prodotto dalla Elektrolux.
 Ma il lavoro, il più delle volte è frustrante: è difficilissimo convincere i contadini della regione della reale utilità del robot da cucina, e Janne Frieberg, aggiungendo le quotidiane delusioni del presente a quelle cocenti del passato (il disastro economico in cui si è risolta prima della guerra la gestione di una drogheria che aveva rilevato dai vecchi proprietari), finisce per sentirsi assolutamente un fallito. Del resto, anche sua moglie lo considera tale; glielo ha chiaramente gridato durante il furioso litigio che hanno avuto quella mattina stessa.
 Così, quando − al termine dell’ennesima brutta giornata in cui non è riuscito a concludere nulla − intravede un vecchio maniero in fondo a un lungo viale in salita, Janne si sforza di concepire la speranza che almeno lì gli venga data la possibilità di dimostrare di valere qualcosa.
 Mentre si avvicina alla casa, però, prima Janne scivola con la sua bicicletta nel fossato che costeggia il viale, e si ferisce seriamente a un polso, poi viene letteralmente aggredito da una muta di vivacissimi cani bassotti. L’ambiente che trova dentro l’abitazione, inoltre, è tutt’altro che propizio a concludere l’affare: in una grande cucina, tre inservienti stanno preparando il pranzo funebre della vecchia padrona di casa, che sta agonizzando nella stanza vicina. E quando la vecchia, in un ultimo soprassalto di lucidità, compare sulla porta del locale, sembra a Janne il ritratto stesso della morte; la cuoca si rende conto in quel momento di quanto sia inopportuna la presenza di quell’ignoto visitatore in cucina, e lo prega di accomodarsi in salotto.
 Lasciato solo nel silenzio del salotto, sempre più dolorante al polso, Janne prima comincia a sfogliare i libri e gli album di fotografie che trova appoggiati su un tavolino accanto alla poltrona su cui si è abbandonato; poi, a poco a poco, sprofonda nel sonno, e sogna.

Lars Gustafsson

 Da quel momento, sogno e vita reale si confondono: i frammenti narrativi che attraversano la mente di Janne impastano insieme i suoi ricordi e le immagini che ha appena osservato nell’album di fotografie, le sue aspirazioni e le sentenze dell’ignoto poeta del libro che ha avuto fra le mani, le sue fantasie e le storie e i nomi uditi per caso nel corso degli anni. Del resto, chi lo dice che i sogni abbiano uno statuto di realtà inferiore a quello della vita interiore che ci anima quando teniamo gli occhi aperti? Perché dovremmo annichilire quasi tutte le infinite possibilità che la ricchezza dei nostri pensieri ci offre sacrificandole alla nostra limitatezza biologica e alla ferocia del tempo che scorre?
 Janne, tra il sonno e la veglia, può allora addirittura arrivare a convincersi di non essere un commesso viaggiatore, ma un fotografo, come aveva immaginato in gioventù di poter diventare. E a quel punto, perché dovrebbe essere sciocco attendersi che la ragazza ritratta in alcune delle foto dell’album, fattasi nel frattempo una donna bellissima e altera, possa entrare nel salotto e, sullo slancio di un’affinità impossibile da negare, concederglisi seduta stante?
 Il romanzo è interessante e la storia narrata è sostenuta da una scrittura decisamente robusta. E tuttavia il gioco intellettualistico su cui esso si fonda è un po' troppo scoperto e sviluppato un po' troppo meccanicamente per non lasciare alla fine piuttosto perplessi.

Voto: 5,5

venerdì 21 agosto 2015

Zygmunt Bauman, "Le sorgenti del male", Erickson



 In questo breve saggio del 2013, Zygmunt Bauman, uno dei più noti filosofi contemporanei, prova ad analizzare – partendo dai totalitarismi che hanno funestato il secolo scorso – le caratteristiche specifiche con le quali si manifesta il male quando, senza essere eticamente riconosciuto come tale dalla maggioranza, investe una intera comunità di individui, informandone i comportamenti prevalenti.
 Tre sono i passaggi principali della degenerazione della mentalità collettiva:
         1) La desensibilizzazione determinata dalla “diluizione” della responsabilità, che non fa capo mai soltanto a un singolo individuo, ma viene distribuita e sciolta fra una pluralità di individui le cui funzioni sono tra loro interconnesse. Per fare un esempio, il sistema con il quale venne attuato lo sterminio del popolo ebraico era congeniato in maniera tale che ciascuno dei tedeschi che radunava gli ebrei destinati alla deportazione, manovrava i treni diretti ai lager, apriva la manopola del gas, attizzava il fuoco nei forni crematori potesse sentirsi non pienamente responsabile del crimine che stava commettendo e fosse in grado di appellarsi genericamente alla necessità di ubbidire a “ordini superiori” o all’obbligo materiale di adeguarsi a una situazione “data”.
      2) La prevalenza dell’istanza economica su qualsiasi considerazione di ordine morale (nella Germania nazista si diceva che la spesa per il mantenimento in vita di un disabile era pari a quella che serviva per il sostentamento di un’intera famiglia “ariana”. Un ragionamento non troppo diverso, in fondo, da quello di chi oggi, nel nostro Paese, stigmatizza i 35 euro al giorno che occorrono per il mantenimento di un rifugiato politico, e si domanda quali benefici potrebbero ricavare gli italiani in termini di riduzione delle imposte se quella cifra  non fosse sborsata dallo Stato…).
      3) L’efficientismo fine a se stesso che porta ad un utilizzo disumanizzante della tecnologia, adeguando automaticamente, in maniera irriflessiva, i propri comportamenti agli scopi e ai meccanismi di funzionamento per cui macchine assai sofisticate e molto costose sono state create (così, se si spendono milioni di dollari per costruire la bomba atomica, poi bisogna usarla; se si armano dei droni per una missione intercontinentale, poi bisogna sganciare i missili che essi trasportano per giustificare l’impegno profuso e la spesa affrontata, anche se le condizioni che si trovano sul terreno non sono quelle che si erano immaginate…).
   
Il filosofo Zygmunt Bauman

       L’analisi di Bauman potrà forse far discutere in alcuni punti, ma è assai raffinata e risulta applicabile a una pletora di realtà diverse, nelle quali gli uomini sono costretti a vivere in condizioni di disagio: e non parlo solo di Stati in cui tuttora vigono regimi antidemocratici. Penso, ad esempio, alla tolleranza dello sfruttamento dei lavoratori in ambiti anche molto diversi fra loro, dall’abuso della manodopera bracciantile nelle campagne dell’Italia meridionale ai ritmi di lavoro impossibili a cui si dice siano costretti commessi e impiegati presso i magazzini di Amazon di Jeff Bezos. 

Voto: 6,5     

mercoledì 19 agosto 2015

Massimo Zamboni, "L'eco di uno sparo", Einaudi


 L’eco di uno sparo è qualcosa di più della ricostruzione di un episodio doloroso e per certi versi imbarazzante della storia famigliare dell’autore; è piuttosto una ricognizione lirico-sociologica delle sue origini e della sua terra d’origine – quella Reggio Emilia essenzialmente rurale che durò fino agli anni settanta del Novecento – compiuta da Zamboni, da una parte, per onestà e bisogno di verità, dall’altra per restituire ai rapporti fra gli uomini che in quel mondo vissero lo spessore e la complessità che gli schematismi della Storia rischiano di annullare completamente.
 La vicenda ricostruita è questa: il 29 febbraio 1944, il nonno materno di Massimo Zamboni, Ulisse, già squadrista, marcia su Roma, segretario del Fascio di Campegine, viene ucciso da due partigiani appartenenti ai Gruppi di Azione Patriottica; diciassette anni dopo, nel 1961, uno di quei due partigiani, Alfredo Casoli detto “Robinson”, uccide a colpi di pistola l’altro, Rino Soragni detto “Muso”, per via di un groviglio di invidie e risentimenti maturati nell’ambito del nuovo clima ideologico che si proietta sulla gestione del potere a livello locale.
 Sullo sfondo di tali accadimenti, i rapporti tra padroni “neri” e contadini “rossi” nell’Emilia del Ventennio, la lotta per la liberazione dal nazifascismo e l’eccidio dei fratelli Cervi, la conquista della supremazia politica e i dissidi interni fra i comunisti nel dopoguerra, ma soprattutto la persistenza lungo tutto questo arco di tempo dei medesimi, antichissimi tratti antropologici e della medesima mentalità nei reggiani appartenenti a tutte le parti politiche e a tutte le classi sociali.

Massimo Zamboni (con gli occhiali) insieme agli altri membri del gruppo punk-rock in cui ha militato per anni, i CCCP

 Le pieghe del racconto consentono però all’autore anche considerazioni di altro tipo. Nella documentatissima restituzione dei fatti, infatti, Zamboni non rinuncia all’attribuzione a ciascuno dei protagonisti delle sue responsabilità storiche e personali, ma prova ad andare oltre questo livello, analizzando le logiche proprie della violenza omicida. Se la guerra è di per sé un’automatica sistematizzazione della violenza omicida, per opporsi alla quale occorre una statura civile davvero eroica (dei fratelli Cervi, Zamboni ricorda che, dopo la caduta del fascismo il 25 luglio del 1943, proclamarono: “nessuna vendetta” contro gli avversari politici), in tempo di pace è la persistenza stessa degli strumenti che servono a dare la morte a costituire una costante minaccia di ritorno alla violenza spinta alle sue estreme conseguenze; per Zamboni “L’arma chiama la guerra. Non è chiamata”.
 In questo modo, la vicenda della morte del nonno fascista e della triste sorte dei suoi sparatori partigiani finisce per assumere un carattere esemplare, che può suggerire una lettura originale degli anni più bui della storia dell'Italia repubblicana - quelli del terrorismo - non basata sulle logiche abituali della contrapposizione politica, bensì focalizzata sulle dinamiche specifiche di propagazione di una violenza che, una volta innescata, dura fatica ad esaurire i propri terribili effetti.

Voto: 6,5

sabato 15 agosto 2015

Edoardo Nesi, "L'estate infinita", Bompiani


 Si tratta di una delle operazioni letterarie più interessanti messe in atto in Italia negli ultimi tempi.
 Due cose giova innanzitutto ricordare di Edoardo Nesi: 1) è uno dei pochissimi scrittori italiani capaci di descrivere la realtà industriale del nostro paese; 2) riesce spesso a farlo attraverso opere narrative assai affascinanti (in anni passati, con presupposti ideologici assai diversi dai suoi, forse solo Paolo Volponi ha saputo raccontare il mondo produttivo con una abilità affabulatoria e una raffinatezza superiori).
 L’estate infinita si inserisce – con caratteristiche peraltro originali – nel filone già presidiato dall’autore con opere come L’età dell’oro e Storia della mia gente: è la storia dello sviluppo complessivo delle attività imprenditoriali nel distretto industriale di Prato (che non viene mai nominata ma che risulta ben riconoscibile) nel decennio che va dal 1972 al 1982 (anni in cui l’Italia, nonostante tutti i suoi problemi, risultava sostenuta da una crescita economica consistente) raccontata attraverso le vicende individuali, tra loro collegate, di tre personaggi principali: Ivo Barrocciai, produttore tessile animato da una passione fuori dal comune per il proprio lavoro, e capace di concepire per la propria azienda progetti espansivi ambiziosissimi, basati sull’ottimismo, su uno spirito quasi visionario e sulla fede nella bellezza e nella qualità dei propri prodotti; Cesare Vezzosi detto “il Bestia”, grande tennista dilettante, ma soprattutto costruttore edile incaricato dal Barrocciai di realizzare il mega-capannone destinato a diventare il simbolo stesso del suo successo e della sua visione della vita e del lavoro; e Pasquale Citarella, modesto operaio al servizio del Vezzosi che, grazie alla sua tenacia, alla sua costanza e alla sua umiltà, saprà elevarsi dal ruolo di semplice imbianchino a quello di capocantiere, e avrà il merito di riuscire a portare a termine, tra mille difficoltà, la costruzione del faraonico capannone della Barrocciai Tessuti.
 Intorno a loro, una folta schiera di personaggi secondari che danno spessore sentimentale alle vite dei protagonisti: vale la pena citare Ardengo Barrocciai, il padre di Ivo, fondatore nel dopoguerra della Barrocciai Coperte, che donerà al figlio il benessere e la sicurezza necessari per intraprendere poi una propria strada; Arianna, infelice moglie di Cesare Vezzosi e da un certo momento in avanti amante del Barrocciai; Vittorio Vezzosi, il figlio di Cesare, che da bambino diventerà uomo “nell’epoca di maggior benessere che l’Italia abbia avuto”; Maria, Dino e Tonino, la moglie e i figli di Citarella.
 Quella che Nesi prova a costruire è una vera e propria epopea, volta a rappresentare con toni entusiastici la massima tensione verso il benessere materiale da cui la società italiana sia stata attraversata, una volta lasciatasi alle spalle i problemi legati alla miseria propriamente detta, al termine di quel lungo dopoguerra che trova compimento con la fine del periodo del boom economico. Il carattere precipuo di tale epopea è l’esaltazione del valore assolutamente preminente dell’etica del lavoro (quella per cui “si dorme per anni 4-5 ore a notte” e “non c’è sabati né domeniche”), attraverso cui prende corpo il sogno di una realtà in cui la ricchezza è veramente a portata di mano per chiunque sappia conquistarsela con il sudore della fronte, lo spirito di iniziativa e il coraggio di intrapresa.
 L’impianto narrativo supporta questo schema ideologico di fondo in maniera molto efficace, utilizzando sostanzialmente tre espedienti: in primo luogo scandisce, anno dopo anno, la parallela progressione di Barrocciai, Vezzosi e Citarella verso il successo; in secondo luogo conferisce a ciascuno dei protagonisti un suo specifico profilo “eroico”, enfatizzato a più riprese con un profluvio di aggettivi che sottolineano i loro meriti; infine, “normalizza” e riporta a una dimensione quotidiana questi eroi dell’epica del lavoro incrociando la descrizione delle magnifiche sorti e progressive delle loro iniziative imprenditoriali con quella delle loro private disavventure e dei loro umanissimi difetti (un’operazione resa ancora più convincente perché nutrita dal sapiente utilizzo di una lingua caratterizzata da una corposa concretezza).
 Il risultato complessivo è di sicuro impatto, e la lettura quanto mai piacevole, nonostante qualche svagatezza e imprecisione di troppo in alcuni passaggi del libro, di cui il lettore attento può accorgersi (ad esempio, si dice a un certo punto che uno dei crucci maggiori del vecchio Ardengo Barrocciai, il padre di Ivo, è quello di non conoscere bene le lingue, ma poi, in un altro passo, Citarella lo trova nel suo ufficio impegnato una disinvolta conversazione telefonica in lingua straniera; o ancora, nella costruzione del personaggio di Cesare Vezzosi e della sua storia si colgono a volte delle piccole incoerenze, come se l’autore, durante la stesura del libro, fosse stato talvolta indeciso su quale indirizzo definitivo dare alla sua vicenda).

Edoardo Nesi

Nella valutazione di questo romanzo si pongono però soprattutto due questioni. La prima: è davvero realistica la descrizione dell’Italia degli anni settanta e ottanta del Novecento come un Paese in cui tutti potevano conquistare il benessere se avevano determinazione e voglia di lavorare? La seconda: l’idea neoliberista secondo la quale solo l’atteggiamento e il costume mentale dell’individualismo imprenditoriale (per cui si è costantemente protesi a fare soldi e a spendere soldi, perché è questa la via maestra per essere riconosciuti socialmente, per dirsi arrivati e per esprimere qualcosa di sé; per cui, ancora, non vale la pena di pagare le tasse, perché pagando le tasse si sottrae alla propria azienda liquidità da reinvestire così che porti infallibilmente all’aumento del volume degli affari e, in seconda battuta, anche alla creazione di nuovi posti di lavoro) sono garanzia di un benessere diffuso e duraturo è supportata dalla teoria e dalla prassi economica?
 Alla prima domanda non si può che rispondere che l’Italia degli anni settanta e ottanta, afflitta da complessi problemi di ordine socio-politico e socio-economico che è quasi superfluo ricordare, non costituiva affatto per molti cittadini – forse per la maggior parte dei cittadini – l’entusiasmante scenario di un’«estate infinita». Cionondimeno non si può negare che vigeva allora un incrollabile ottimismo nei confronti dell’indefettibile progresso che avrebbero conosciuto le condizioni generali del benessere materiale: ricordo anch’io di aver sentito i miei nonni o qualche vecchio zio pronunciare frasi come “adesso si sta meglio di come si stava ieri, e in futuro si starà senz’altro meglio di come si sta adesso…”.
 Il problema chiave è però quello posto dalla seconda domanda: basta incoraggiare l’iniziativa individuale per garantire a tutti la possibilità concreta di attingere alla ricchezza? Per lunghi tratti il romanzo sembra suggerire che sia proprio così; capita però di imbattersi in passi in cui il narratore è costretto ad ammettere che il nesso fra le due cose non è così banale né meccanico. Mi viene in mente, ad esempio, la scena in cui un Pasquale Citarella giustamente orgoglioso, una domenica, porta la moglie e i figli a visitare il mega-capannone della Barrocciai Tessuti, nella cui edificazione egli ha avuto una parte così importante; ebbene, in quell’occasione sua moglie Maria arriva a chiedersi come la marea montante ed esaltante del benessere abbia potuto con tanta facilità lambire tutti loro, che sono venuti dal niente.
 Nonostante attribuisca i giusti meriti a suo marito e di quelli come lui, Maria deve alla fine riconoscere che la felice condizione toccata alla sua gente e, più in generale al suo Paese, in quell’epoca specifica è dovuta anche a qualcosa di imponderabile, che ella esita un po’ prima di definire, semplicemente, “fortuna”. Una fortuna, prosegue nei suoi pensieri Maria quasi in preda a un intimo invasamento profetico, che in futuro potrebbe toccare ad altri Paesi e abbandonare l’Italia: tanto che alla mente della donna arriva ad affacciarsi l’immagine spaventosa di quegli stessi capannoni che mentre li guarda appaiono ferventi di attività, trasformati in scatoloni vuoti, scrostati, silenziosi, con l’erba che cresce nei piazzali.
 In questo modo, la logica per la quale il dilagare della libera iniziativa individuale conduce sicurissimamente al benessere e all’abbondanza universali finisce per traballare e per rischiare di rovesciarsi completamente: forse piuttosto è nei periodi nei quali sono garantite le condizioni ideali per la prosperità e l’abbondanza che l’iniziativa individuale trova terreno fertile per affermarsi con ottime probabilità di successo, tanto da diventare la più suggestiva, plastica rappresentazione esteriore della prosperità e dell’abbondanza.
 Una conclusione in realtà abbastanza ovvia per chi, come me, credendo nel socialismo democratico, ritiene che si debba cercare di agire politicamente per governare nella maniera più saggia possibile le diverse variabili del sistema economico, creando una situazione favorevole allo sviluppo anche dell’iniziativa individuale “a briglia sciolta” quando è possibile, però sempre entro una cornice di regole giuste.
 Alla fine, comunque, dato che Nesi è scrittore vero, giunge per via letteraria dove non arriva attraverso la teoresi: tanto è vero che il personaggio più riuscito dell'intero romanzo è quello certo meno esemplare è più aiutato dalla fortuna (almeno sul lavoro) nel suo cammino verso il successo: Cesare Vezzosi, l'indimenticabile "Bestia".

Voto: 8

domenica 2 agosto 2015

Dario Crapanzano, "Arrigoni e l'assassinio del prete bello", Mondadori


 In una fresca mattina di primavera, nei giorni che precedono la Pasqua del 1953, il catamucc, un povero diavolo che si è inventato una piccola attività imprenditoriale raccogliendo i mozziconi di sigaretta abbandonati sul selciato per poi riciclarne il trinciato, scopre su una panchina di piazzale Bacone a Milano il cadavere di un uomo con un coltello piantato nel petto. Presto ci si rende conto che il morto è un sacerdote: don Luciano Fontevivo, della parrocchia di San Sigismondo, detto “il prete bello”, generalmente ammirato dai fedeli per la sua generosità e il suo attivismo, ma criticato dai più tradizionalisti per le sue idee progressiste − e bersaglio di qualche pettegolezzo per via delle belle donne che spesso lo circondano, secondo alcuni non tanto per le sue doti pastorali quanto per il suo fascino e la sua prestanza fisica.  
 Il caso, assai delicato dal momento che coinvolge un uomo di Chiesa (per quanto piuttosto originale) nell’Italia perbenista e un po’ bigotta degli anni cinquanta, viene affidato alle cure dell’esperto commissario Arrigoni e dei suoi brillanti agenti. Tra un succulento pranzo in trattoria e un sigaro toscano, Arrigoni svilupperà la sua indagine cercando di mettere a fuoco gli ambienti e i personaggi con cui don Luciano aveva a che fare: un parroco di larghe vedute, una perpetua con un passato da soubrette, due affascinanti parrocchiane, l’arcigno prefetto che amministra con severità l’oratorio di San Sigismondo, una bella penitente, un investigatore privato con un passato nella legione straniera e la sua procace collaboratrice. Quando la soluzione del mistero sembrerà ormai fuori portata, l’acume e lo spirito di osservazione dell’agente Di Pasquale porteranno all’individuazione del colpevole, svelando una verità capace di mettere a tacere tutte le malelingue.

Milano, Piazzale Bacone negli anni cinquanta

 Più che sul ritmo e sull’esplorazione psicologica delle raffinate logiche del crimine, i romanzi polizieschi di Crapanzano – e questo non fa eccezione − sono basati sulla resa della suggestiva atmosfera della Milano degli anni cinquanta, ancora magicamente sospesa tra le miserie del dopoguerra e il benessere del boom. Il gusto per la descrizione di quel mondo spesso porta il narratore a trascurare addirittura lo sviluppo dell’indagine per abbandonarsi a digressioni che tendono a trasformarsi in veri e propri pezzi di storia del costume, talvolta caratterizzati da un eccesso di didascalismo (rischiando di indugiare anche sull’ovvio, come quando si ritiene necessario specificare che la Democrazia Cristiana era allora “il partito al potere”).
 L'effetto finale è tutt'altro che spiacevole, soprattutto per chi conosce un poco Milano; certo, gli amanti dei thriller propriamente detti potrebbero storcere il naso.

Voto: 6