sabato 15 agosto 2015

Edoardo Nesi, "L'estate infinita", Bompiani


 Si tratta di una delle operazioni letterarie più interessanti messe in atto in Italia negli ultimi tempi.
 Due cose giova innanzitutto ricordare di Edoardo Nesi: 1) è uno dei pochissimi scrittori italiani capaci di descrivere la realtà industriale del nostro paese; 2) riesce spesso a farlo attraverso opere narrative assai affascinanti (in anni passati, con presupposti ideologici assai diversi dai suoi, forse solo Paolo Volponi ha saputo raccontare il mondo produttivo con una abilità affabulatoria e una raffinatezza superiori).
 L’estate infinita si inserisce – con caratteristiche peraltro originali – nel filone già presidiato dall’autore con opere come L’età dell’oro e Storia della mia gente: è la storia dello sviluppo complessivo delle attività imprenditoriali nel distretto industriale di Prato (che non viene mai nominata ma che risulta ben riconoscibile) nel decennio che va dal 1972 al 1982 (anni in cui l’Italia, nonostante tutti i suoi problemi, risultava sostenuta da una crescita economica consistente) raccontata attraverso le vicende individuali, tra loro collegate, di tre personaggi principali: Ivo Barrocciai, produttore tessile animato da una passione fuori dal comune per il proprio lavoro, e capace di concepire per la propria azienda progetti espansivi ambiziosissimi, basati sull’ottimismo, su uno spirito quasi visionario e sulla fede nella bellezza e nella qualità dei propri prodotti; Cesare Vezzosi detto “il Bestia”, grande tennista dilettante, ma soprattutto costruttore edile incaricato dal Barrocciai di realizzare il mega-capannone destinato a diventare il simbolo stesso del suo successo e della sua visione della vita e del lavoro; e Pasquale Citarella, modesto operaio al servizio del Vezzosi che, grazie alla sua tenacia, alla sua costanza e alla sua umiltà, saprà elevarsi dal ruolo di semplice imbianchino a quello di capocantiere, e avrà il merito di riuscire a portare a termine, tra mille difficoltà, la costruzione del faraonico capannone della Barrocciai Tessuti.
 Intorno a loro, una folta schiera di personaggi secondari che danno spessore sentimentale alle vite dei protagonisti: vale la pena citare Ardengo Barrocciai, il padre di Ivo, fondatore nel dopoguerra della Barrocciai Coperte, che donerà al figlio il benessere e la sicurezza necessari per intraprendere poi una propria strada; Arianna, infelice moglie di Cesare Vezzosi e da un certo momento in avanti amante del Barrocciai; Vittorio Vezzosi, il figlio di Cesare, che da bambino diventerà uomo “nell’epoca di maggior benessere che l’Italia abbia avuto”; Maria, Dino e Tonino, la moglie e i figli di Citarella.
 Quella che Nesi prova a costruire è una vera e propria epopea, volta a rappresentare con toni entusiastici la massima tensione verso il benessere materiale da cui la società italiana sia stata attraversata, una volta lasciatasi alle spalle i problemi legati alla miseria propriamente detta, al termine di quel lungo dopoguerra che trova compimento con la fine del periodo del boom economico. Il carattere precipuo di tale epopea è l’esaltazione del valore assolutamente preminente dell’etica del lavoro (quella per cui “si dorme per anni 4-5 ore a notte” e “non c’è sabati né domeniche”), attraverso cui prende corpo il sogno di una realtà in cui la ricchezza è veramente a portata di mano per chiunque sappia conquistarsela con il sudore della fronte, lo spirito di iniziativa e il coraggio di intrapresa.
 L’impianto narrativo supporta questo schema ideologico di fondo in maniera molto efficace, utilizzando sostanzialmente tre espedienti: in primo luogo scandisce, anno dopo anno, la parallela progressione di Barrocciai, Vezzosi e Citarella verso il successo; in secondo luogo conferisce a ciascuno dei protagonisti un suo specifico profilo “eroico”, enfatizzato a più riprese con un profluvio di aggettivi che sottolineano i loro meriti; infine, “normalizza” e riporta a una dimensione quotidiana questi eroi dell’epica del lavoro incrociando la descrizione delle magnifiche sorti e progressive delle loro iniziative imprenditoriali con quella delle loro private disavventure e dei loro umanissimi difetti (un’operazione resa ancora più convincente perché nutrita dal sapiente utilizzo di una lingua caratterizzata da una corposa concretezza).
 Il risultato complessivo è di sicuro impatto, e la lettura quanto mai piacevole, nonostante qualche svagatezza e imprecisione di troppo in alcuni passaggi del libro, di cui il lettore attento può accorgersi (ad esempio, si dice a un certo punto che uno dei crucci maggiori del vecchio Ardengo Barrocciai, il padre di Ivo, è quello di non conoscere bene le lingue, ma poi, in un altro passo, Citarella lo trova nel suo ufficio impegnato una disinvolta conversazione telefonica in lingua straniera; o ancora, nella costruzione del personaggio di Cesare Vezzosi e della sua storia si colgono a volte delle piccole incoerenze, come se l’autore, durante la stesura del libro, fosse stato talvolta indeciso su quale indirizzo definitivo dare alla sua vicenda).

Edoardo Nesi

Nella valutazione di questo romanzo si pongono però soprattutto due questioni. La prima: è davvero realistica la descrizione dell’Italia degli anni settanta e ottanta del Novecento come un Paese in cui tutti potevano conquistare il benessere se avevano determinazione e voglia di lavorare? La seconda: l’idea neoliberista secondo la quale solo l’atteggiamento e il costume mentale dell’individualismo imprenditoriale (per cui si è costantemente protesi a fare soldi e a spendere soldi, perché è questa la via maestra per essere riconosciuti socialmente, per dirsi arrivati e per esprimere qualcosa di sé; per cui, ancora, non vale la pena di pagare le tasse, perché pagando le tasse si sottrae alla propria azienda liquidità da reinvestire così che porti infallibilmente all’aumento del volume degli affari e, in seconda battuta, anche alla creazione di nuovi posti di lavoro) sono garanzia di un benessere diffuso e duraturo è supportata dalla teoria e dalla prassi economica?
 Alla prima domanda non si può che rispondere che l’Italia degli anni settanta e ottanta, afflitta da complessi problemi di ordine socio-politico e socio-economico che è quasi superfluo ricordare, non costituiva affatto per molti cittadini – forse per la maggior parte dei cittadini – l’entusiasmante scenario di un’«estate infinita». Cionondimeno non si può negare che vigeva allora un incrollabile ottimismo nei confronti dell’indefettibile progresso che avrebbero conosciuto le condizioni generali del benessere materiale: ricordo anch’io di aver sentito i miei nonni o qualche vecchio zio pronunciare frasi come “adesso si sta meglio di come si stava ieri, e in futuro si starà senz’altro meglio di come si sta adesso…”.
 Il problema chiave è però quello posto dalla seconda domanda: basta incoraggiare l’iniziativa individuale per garantire a tutti la possibilità concreta di attingere alla ricchezza? Per lunghi tratti il romanzo sembra suggerire che sia proprio così; capita però di imbattersi in passi in cui il narratore è costretto ad ammettere che il nesso fra le due cose non è così banale né meccanico. Mi viene in mente, ad esempio, la scena in cui un Pasquale Citarella giustamente orgoglioso, una domenica, porta la moglie e i figli a visitare il mega-capannone della Barrocciai Tessuti, nella cui edificazione egli ha avuto una parte così importante; ebbene, in quell’occasione sua moglie Maria arriva a chiedersi come la marea montante ed esaltante del benessere abbia potuto con tanta facilità lambire tutti loro, che sono venuti dal niente.
 Nonostante attribuisca i giusti meriti a suo marito e di quelli come lui, Maria deve alla fine riconoscere che la felice condizione toccata alla sua gente e, più in generale al suo Paese, in quell’epoca specifica è dovuta anche a qualcosa di imponderabile, che ella esita un po’ prima di definire, semplicemente, “fortuna”. Una fortuna, prosegue nei suoi pensieri Maria quasi in preda a un intimo invasamento profetico, che in futuro potrebbe toccare ad altri Paesi e abbandonare l’Italia: tanto che alla mente della donna arriva ad affacciarsi l’immagine spaventosa di quegli stessi capannoni che mentre li guarda appaiono ferventi di attività, trasformati in scatoloni vuoti, scrostati, silenziosi, con l’erba che cresce nei piazzali.
 In questo modo, la logica per la quale il dilagare della libera iniziativa individuale conduce sicurissimamente al benessere e all’abbondanza universali finisce per traballare e per rischiare di rovesciarsi completamente: forse piuttosto è nei periodi nei quali sono garantite le condizioni ideali per la prosperità e l’abbondanza che l’iniziativa individuale trova terreno fertile per affermarsi con ottime probabilità di successo, tanto da diventare la più suggestiva, plastica rappresentazione esteriore della prosperità e dell’abbondanza.
 Una conclusione in realtà abbastanza ovvia per chi, come me, credendo nel socialismo democratico, ritiene che si debba cercare di agire politicamente per governare nella maniera più saggia possibile le diverse variabili del sistema economico, creando una situazione favorevole allo sviluppo anche dell’iniziativa individuale “a briglia sciolta” quando è possibile, però sempre entro una cornice di regole giuste.
 Alla fine, comunque, dato che Nesi è scrittore vero, giunge per via letteraria dove non arriva attraverso la teoresi: tanto è vero che il personaggio più riuscito dell'intero romanzo è quello certo meno esemplare è più aiutato dalla fortuna (almeno sul lavoro) nel suo cammino verso il successo: Cesare Vezzosi, l'indimenticabile "Bestia".

Voto: 8

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