mercoledì 19 agosto 2015

Massimo Zamboni, "L'eco di uno sparo", Einaudi


 L’eco di uno sparo è qualcosa di più della ricostruzione di un episodio doloroso e per certi versi imbarazzante della storia famigliare dell’autore; è piuttosto una ricognizione lirico-sociologica delle sue origini e della sua terra d’origine – quella Reggio Emilia essenzialmente rurale che durò fino agli anni settanta del Novecento – compiuta da Zamboni, da una parte, per onestà e bisogno di verità, dall’altra per restituire ai rapporti fra gli uomini che in quel mondo vissero lo spessore e la complessità che gli schematismi della Storia rischiano di annullare completamente.
 La vicenda ricostruita è questa: il 29 febbraio 1944, il nonno materno di Massimo Zamboni, Ulisse, già squadrista, marcia su Roma, segretario del Fascio di Campegine, viene ucciso da due partigiani appartenenti ai Gruppi di Azione Patriottica; diciassette anni dopo, nel 1961, uno di quei due partigiani, Alfredo Casoli detto “Robinson”, uccide a colpi di pistola l’altro, Rino Soragni detto “Muso”, per via di un groviglio di invidie e risentimenti maturati nell’ambito del nuovo clima ideologico che si proietta sulla gestione del potere a livello locale.
 Sullo sfondo di tali accadimenti, i rapporti tra padroni “neri” e contadini “rossi” nell’Emilia del Ventennio, la lotta per la liberazione dal nazifascismo e l’eccidio dei fratelli Cervi, la conquista della supremazia politica e i dissidi interni fra i comunisti nel dopoguerra, ma soprattutto la persistenza lungo tutto questo arco di tempo dei medesimi, antichissimi tratti antropologici e della medesima mentalità nei reggiani appartenenti a tutte le parti politiche e a tutte le classi sociali.

Massimo Zamboni (con gli occhiali) insieme agli altri membri del gruppo punk-rock in cui ha militato per anni, i CCCP

 Le pieghe del racconto consentono però all’autore anche considerazioni di altro tipo. Nella documentatissima restituzione dei fatti, infatti, Zamboni non rinuncia all’attribuzione a ciascuno dei protagonisti delle sue responsabilità storiche e personali, ma prova ad andare oltre questo livello, analizzando le logiche proprie della violenza omicida. Se la guerra è di per sé un’automatica sistematizzazione della violenza omicida, per opporsi alla quale occorre una statura civile davvero eroica (dei fratelli Cervi, Zamboni ricorda che, dopo la caduta del fascismo il 25 luglio del 1943, proclamarono: “nessuna vendetta” contro gli avversari politici), in tempo di pace è la persistenza stessa degli strumenti che servono a dare la morte a costituire una costante minaccia di ritorno alla violenza spinta alle sue estreme conseguenze; per Zamboni “L’arma chiama la guerra. Non è chiamata”.
 In questo modo, la vicenda della morte del nonno fascista e della triste sorte dei suoi sparatori partigiani finisce per assumere un carattere esemplare, che può suggerire una lettura originale degli anni più bui della storia dell'Italia repubblicana - quelli del terrorismo - non basata sulle logiche abituali della contrapposizione politica, bensì focalizzata sulle dinamiche specifiche di propagazione di una violenza che, una volta innescata, dura fatica ad esaurire i propri terribili effetti.

Voto: 6,5

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