sabato 27 gennaio 2018

Lars Gustafsson, "Il pomeriggio di un piastrellista", Iperborea


 I libri di Lars Gustafsson, grande scrittore svedese scomparso poco meno di due anni fa, sono fra i pochi in cui il lettore veramente non riesce a intuire come andrà a finire la storia che si sta raccontando; e questo non in virtù di una trama rocambolesca, o grazie a un utilizzo parossistico dell'artificio della suspense, ma per via dell'adozione di una logica assolutamente non convenzionale, sganciata dal senso comune e legata, piuttosto, alle divagazioni onirico surrealistiche che occupano così tanto spazio nella vita interiore di ciascuno di noi da costringerci costantemente a uno sforzo volontaristico per venire faticosamente a patti col principio di realtà.
 Il pomeriggio di un piastrellista (ripubblicato recentemente da Iperborea 25 anni dopo la sua uscita) narra la vicenda di Torsten Bergman, un artigiano di 65 anni, che dopo la morte della moglie e del figlio vive da solo nella sua casa di Uppsala, mantenendosi con la piccola pensione che gli passa lo Stato, e continuando occasionalmente a svolgere piccoli lavori per cui si fa pagare in nero.
 Torsten è una persona sola, ma non è un sociopatico; semplicemente, i dolori della vita, la vecchiaia che avanza e l'alcool al cui consumo spesso indulge lo hanno reso indolente, astratto, talvolta confuso, un poco misantropo. Così, nel giardino della sua abitazione, dietro la siepe che la circonda, vecchi rottami arrugginiscono esposti alle intemperie senza che egli se ne curi; le scorte di piastrelle messe da parte in anni di pratica del mestiere e i suoi stessi attrezzi da lavoro giacciono mezzo immersi nella melma della cantina semi-allagata da un guasto alle tubature senza che egli trovi la voglia per riparare il guasto e fare pulizia; e le bollette non pagate si accumulano sopra il frigorifero in cucina.
 E tuttavia, quando un suo conoscente, l'idraulico finlandese Pentti - che a stento parla lo svedese, ma è un brav'uomo e una persona seria -, gli propone di completare un lavoro in una casa in ristrutturazione, lasciato a metà da chi l'ha preceduto, Torsten si scuote dal suo torpore e accetta: in fondo, un po' di contanti gli farebbero davvero comodo.
 In una mattinata grigia e piovosa del mese di novembre 1982, Torsten porta la sua vecchia auto non revisionata fuori dal garage e, sfidando la sua desuetudine alla guida, la precarietà della sua vista e i suoi occhiali incredibilmente sporchi, si reca all'indirizzo che Pentti gli ha dettato al telefono. In quel luogo, in mezzo a un prato solcato dalle tracce degli pneumatici dei vari automezzi che vi sono entrati, sorge una grande casa, che forse un tempo è stata anche elegante.
 Nessuno sembra aspettarlo lì; Torsten prende allora l'iniziativa ed entra dal sontuoso portone d'ingresso, e si accorge che, mentre l'appartamento al piano superiore, con ogni evidenza, è abitato da qualcuno (si sentono dei rumori provenire da dietro la porta in cima alle scale, dove un provvisorio biglietto di carta riporta il nome di una certa Sophie K.), il pianterreno è un vero e proprio cantiere aperto. Una sommaria esplorazione dell'appartamento in via di ristrutturazione suggerisce all'anziano artigiano che il luogo in cui è richiesto il suo intervento è il bagno: una grande stanza il cui pavimento e le cui pareti sono ricoperte con materiali di ottima fattura, ma dove il piastrellista che ha lasciato il lavoro a metà sembra aver operato al buio o sotto l'effetto di stupefacenti. All'inizio perfettamente allineate, infatti, le file di piastrelle diventano sempre più approssimative, le fughe poco curate, la posa maldestra, la stesura degli stucchi abborracciata.

 Lars Gustafsson

 Dopo aver bussato - alla ricerca di qualche informazione sulle richieste del committente - alla porta dell'appartamento del piano superiore, senza ottenere risposta, Torsten si mette al lavoro rimuovendo innanzitutto a forza di martellate ciò che è stato fatto malamente e che deve essere rifatto.
 Si dice che il lavoro nobiliti l'uomo; di certo in Torsten induce uno stato di equilibrio interiore e di benessere quasi ipnotico, che fa nascere nella sua mente i pensieri più lucidi, e le immagini più vivide. Così, le file di piastrelle via via sempre più sgangherate e sconnesse che egli riduce in frantumi diventano per lui l'immagine metaforica del trasformarsi di ogni vita, nonostante le promettenti premesse iniziali, in un inevitabile fallimento (come del resto suggerisce la frase di Sartre che Gustafsson pone in esergo al testo); così, la misteriosa Sophie K., che presumibilmente occupa l'appartamento al piano superiore, appare alla fantasia del protagonista ora come una giovane pittrice di quadri astratti, ora come una rossa procace di sorprendente bellezza, ora come una vecchina che afferma di aver conosciuto Torsten quand'era ragazzo, e abitava nella soffitta sopra il negozio di suo zio, lo stagnaio, ad Hallsta.
 In queste divagazioni della mente, realtà e immaginazione, passato e presente paiono confondersi e sovrapporsi: ciò che è fantastico appare tanto vivido da poter essere scambiato per un dato reale, mentre ciò che è vero appare talvolta così poco plausibile da sembrare frutto di fantasia.
 Come giudicare allora Stickan, il vecchio amico che Torsten incontra al Centro Edilizio dove si reca, in assenza del supporto logistico di chi gli ha commissionato il lavoro, per vendere due rubinetti cromati smontati nel bagno, onde procurarsi il collante e lo stucco necessari per completare la piastrellatura, e che - sfaccendato - lo segue nel cantiere in cui sta lavorando con l'intenzione di dargli una mano durante il pomeriggio? E' un uomo in carne e ossa o solo un miraggio, creato dall'acquavite a cui Torsten ha dato fondo al momento del pranzo?
 Il pomeriggio è il momento della giornata (e, simbolicamente, la stagione della vita) del piastrellista in cui tutto pare confondersi e andare a rotoli; eppure nel contempo tutto acquisisce ordine e senso, anche se si tratta di un ordine che asseconda la misteriosa logica interiore del protagonista, anche se un senso si delinea solo nella prospettiva di un recupero, da parte di Torsten, di una consapevolezza esistenziale che aveva smarrito.
 Giunto in prossimità della fine del suo lavoro, infatti, il protagonista si rende conto di avere scioccamente sbagliato indirizzo, e di avere lavorato per tutto il giorno in una casa che non è quella in cui era richiesto il suo intervento: Pentti gli aveva chiesto di andare a Malma Skogsvag, e non a Skogstibblevagen! Ma anche all'indirizzo sbagliato c'era una casa da ristrutturare, e il lavoro è stato eseguito a regola d'arte: anche se forse nessuno lo pagherà, questo è per Torsten motivo di orgoglio e soddisfazione.
 E poi, la casa in cui è capitato per caso (un po' come in una vita vissuta fuori dal suo destino immanente) ha francamente qualcosa di magico o di stregonesco, di inquietante e di affascinante. Ne conviene anche Stickan, che è tornato dall'amico dopo aver riaccompagnato a casa una donna che si era presentata sulla soglia dell'abitazione insieme ai suoi due bambini a chiedere aiuto, in seguito a una lite col marito che l'aveva scacciata...
 E' scesa la sera ormai, e non sembra esserci altro da fare che abbandonare il cantiere, chiudere la parentesi di quella giornata sconclusionata, e tornare ciascuno alla propria routine quotidiana. Ma proprio in quel momento, qualcuno bussa energicamente alla porta d'ingresso dell'appartamento. Chi può essere, a quell'ora?
 Il libro si chiude così, senza darci la possibilità di sapere chi troveranno finalmente dietro la porta Torsten e Stickan.
 Il pomeriggio di un piastrellista costituisce uno di quei rari casi in cui un testo narrativo riesce a unire concretezza descrittiva, leggerezza fantastica e densità metaforica in un amalgama stilistico di assoluta compattezza: come un fascio di luce del quale, curiosamente, si palesino insieme la natura corpuscolare e ondulatoria.
 Nella sua scombinata attitudine al lavoro, Torsten Bergman assume un rilievo umano straordinario: come a dire che bellezza, profondità e fantastica capacità di astrazione, in questo mondo doloroso, e ingiusto, e irrazionale, e mutevole, e cinico, e distratto, si possono trovare dovunque e in chiunque, indipendentemente dal destino che il caso gli cuce addosso (in questo senso, Torsten sembra fare da involontario contrappunto a un altro piastrellista della letteratura, il Dolfo fratello del protagonista di Seminario sulla gioventù, che Aldo Busi descriveva come un uomo arreso, ridottosi allo stato amorfo di un pavimento, per essersi passivamente adattato a svolgere un lavoro manuale nonostante la sua propensione intellettuale, il suo talento e il suo amore per il latino e per i classici: due punti di vista diversi per due scrittori agli antipodi per temperamento, formazione, interessi).
 La scrittura è scorrevole, lieve, precisa, efficace: raccontando con semplicità situazioni che possono risultare famigliari a ciascuno, riesce a parlare d'altro.
 Insomma, di sicuro siamo di fronte a uno dei romanzi meglio riusciti di Lars Gustafsson.

Voto: 7,5

domenica 21 gennaio 2018

Enrico Camanni, "Il desiderio di infinito. Vita di Giusto Gervasutti", Laterza


 Enrico Camanni ricostruisce, sulla base di attentissime ricerche documentarie, la vita e la carriera di Giusto Gervasutti, detto "il Fortissimo", uno degli alpinisti italiani di maggior talento di tutti i tempi, uno degli uomini di punta dell'epoca d'oro del Sesto grado - gli anni trenta e quaranta del Novecento -, la fase storica in cui l'alpinismo raggiunse una popolarità eccezionale, e divenne qualcosa di più di una semplice disciplina sportiva.
 Cominciarono allora ad andare in montagna classi e categorie che fino a quel momento erano state escluse da questa pratica, e i regimi autoritari al potere in Europa vollero sfruttare questa nuova passione a scopo propagandistico, nutrendo una retorica che faceva dell'alpinista il simbolo stesso dell'ardimento, e lo trasformava nell'eroe pronto al sacrificio estremo pur di mietere fra le vette strabilianti successi a maggior gloria della Patria: nella corsa alla conquista delle grandi pareti (principalmente la parete Nord del Cervino, le Grandes Jorasses e la Nordwand dell'Eiger), "gli ultimi problemi delle Alpi", molti giovani, soprattutto di origine tedesca e austriaca, ci rimisero la vita.
 In tale contesto, Gervasutti seppe distinguersi per l'originalità del suo approccio - al contempo estremamente moderno, in anticipo sui propri tempi, e perfettamente classico, sobriamente legato all'etica dei grandi alpinisti inglesi di fine Ottocento, Albert Frederick Mummery in primo luogo - e per la sua complessa personalità.
 In parete, cercava sempre di seguire una linea di salita assolutamente elegante, che si avvicinava il più possibile alla verticale, e realizzava le proprie scalate con una eccezionale economia di mezzi e di movimenti (configurando uno stile che si affermò pienamente fra gli alpinisti solo vent'anni dopo di lui); sovente prediligeva inoltre il tentativo di disegnare una "bella via" alla ricerca del successo a tutti i costi: non a caso si fece soffiare da altri alcune prime ascensioni sulle montagne che meglio conosceva, e che sarebbero state certamente alla sua portata.
 Sul piano teorico, invece, non smise mai di interrogarsi sul significato profondo della propria attività, sul proprio bisogno di scalare, di mettersi alla prova, sul brivido (che oggi chiameremmo adrenalinico) che gli donava l'anelito alle altezze, sul desiderio di staccarsi dalle meschinità della vita quotidiana per attingere a una dimensione "assoluta".
 Nativo di Cervignano del Friuli (che in montagna non è), classe 1909, di famiglia borghese, Gervasutti crebbe lontano dalle grandi cime e imparò ad arrampicare sul calcare delle Dolomiti.  Scoprì le Alpi occidentali solo durante il servizio militare, e se ne innamorò perdutamente, tanto che, nel 1931, si trasferì a Torino proprio per assecondare la propria passione per la montagna.
 Nella città sabauda si attraversava allora la fase in cui il movimento alpinistico italiano - con il CAI ormai colonizzato dalla politica fascista e trasferito d'ufficio a Roma -, cercava un'occasione di rilancio soprattutto grazie all'iniziativa del Club Alpino Accademico sotto la presidenza del magistrato Umberto Balestrieri. Balestrieri, uomo dal limpido profilo morale e dalla spiccata indipendenza intellettuale, morirà presto in montagna; ma fu sull'onda del suo esempio che prese l'abbrivio la carriera dei migliori giovani alpinisti torinesi dell'epoca, fra i quali si palesarono come stelle di prima grandezza Gabriele Boccalatte e Giusto Gervasutti (Gervasutti, fra l'altro, fu sempre molto vicino alla famiglia Balestrieri: la figlia di Umberto, Maria Luisa, che all'epoca della scomparsa del padre aveva solo 12 anni, una volta cresciuta divenne per il friulano molto più di una semplice amica).
 Non è mai stata fatta piena luce sulla vita extra-alpinistica che Gervasutti conduceva a Torino: sappiamo dove abitava, sappiamo che presto lo raggiunsero dal Friuli i suoi genitori, e sappiamo anche che inizialmente si presentava come "studente", sebbene non sia chiaro quali studi abbia effettivamente condotto. Solo a partire dal 1936 conquistò una piena indipendenza economica, diventando a tutti gli effetti un imprenditore (si occupò dapprima del commercio di materie prime e di prodotti semilavorati, e successivamente, dopo l'inizio della guerra, di editoria; nel contempo era diventato istruttore presso la scuola di alpinismo che fu intitolata a Gabriele Boccalatte dopo la scomparsa di quest'ultimo).

 Enrico Camanni

 Le imprese di maggiore rilievo dal punto di vista alpinistico compiute da Gervasutti sono racchiuse negli anni tra il 1936 e il 1942. Il 1936 è l'anno dell'Ailefroide, nel Delfinato, in coppia col francese Lucien Devies: una parete affrontata in precarie condizioni fisiche dopo una sciocca caduta durante la marcia di avvicinamento, con due costole incrinate e i denti rotti. Nel 1938 Gervasutti scala il pilastro del Pic Gugliermina, sul Monte Bianco, in coppia con Gabriele Boccalatte, esaltando sul granito la propria abilità di arrampicatore libero. Nel 1940 espugna il pilone di destra del Freney, in quello che è forse l'angolo più remoto del massiccio del Bianco, in tempo di guerra, in coppia con il giovanissimo Paolo Bollini. Infine, nel 1942, quella che è forse la realizzazione più prestigiosa del Fortissimo: la parete est delle Grandes Jorasses insieme a Giuseppe Gagliardone.
 Gervasutti morì nel 1946, a soli 37 anni, probabilmente per un banale incidente mentre cercava di liberare una corda impigliata sul Mont Blanc du Tacul, durante la discesa. Molti anni passarono da allora prima che la sua grandezza venisse pienamente riconosciuta. Questo avvenne, in parte, perché i principali rivali che ebbe in Italia negli anni trenta, Riccardo Cassin ed Emilio Comici, raccolsero più di lui in termini di "prime" e di realizzazioni prestigiose; d'altra parte, Camanni fa notare come il suo modo di intendere l'arrampicata non fu del tutto compreso da chi considerò la sua figura: qualcuno scambiò il suo problematico sentimento dell'atto dello scalare - inteso come tentativo eternamente frustrato di liberarsi delle pastoie che impediscono all'uomo di nobilitare una volta per tutte la propria natura - per il chiaro indizio di una visione nietzchiana, fondamentalmente superomistica e surrettiziamente parafascista della passione per la montagna e dell'esistenza stessa.
 Qualcun altro, come Gian Piero Motti - intellettuale, storico dell'alpinismo, alpinista egli stesso, fra i fondatori negli anni settanta del movimento del Nuovo Mattino -, parlò di Gervasutti addirittura come del "Michelangelo dell'alpinismo", proiettando sulla sua personalità inquietudini laceranti e contraddizioni assolutamente irrisolvibili che egli forse non coltivò.
 In realtà, secondo Camanni, in Gervasutti la voglia di normalità e il desiderio di andare oltre la normalità convivevano e si alternavano, definendo un profilo caratteriale assai più sfaccettato e umanamente ricco rispetto a quello contemplato dai luoghi comuni più diffusi sul suo conto.
 Il libro è appassionante soprattutto nella parte centrale, quella in cui, prendendo spunto dagli scritti autobiografici dello stesso Gervasutti, si ricostruiscono fedelmente le sue scalate, il suo modo di arrampicare, il suo modo di pensare.
 Decisamente più deboli sono invece le parti in cui, in assenza di documenti capaci di ricostruire nel dettaglio la vita del Fortissimo (che fu sempre uomo estremamente riservato e parco di appunti riguardanti la sua persona e la sua esistenza da "borghese"), si parte dalla definizione del contesto in cui egli si trovò a operare, provando poi ad arrivare per congettura all'individuazione del tratto biografico.
 Questo modo di procedere risulta spesso dispersivo e poco produttivo e genera talvolta una prosa eccessivamente farraginosa (soprattutto nella prima parte del libro). Ciò non toglie nulla al valore delle preziose ricerche compiute da Camanni (con il recupero di fotografie inedite e delle testimonianze spesso dimenticate di chi conobbe Gervasutti e magari scalò con lui: da Paolo Bollini alla stessa Maria Luisa Balestrieri, che "rischiò" di diventare sua moglie); e non toglie nulla neppure alle pagine in cui l'autore ci parla con accenti quasi lirici delle emozioni provate nel ripetere le salite compiute dal Fortissimo, con la magica impressione di averlo accanto e la certezza di riuscire, in questo modo, a cogliere meglio il messaggio contenuto nei suoi scritti, non così raffinati dal punto di vista retorico, eppure terribilmente densi.
 Tenendo fermo tutto questo, bisogna pur dire, però, che Camanni ci ha abituati a testi di ben altra efficacia.

Voto: 5,5

domenica 14 gennaio 2018

David Szalay, "Tutto quello che è un uomo", Adelphi


 Una decina di anni fa mi capitò di recensire un libro - uno di quei testi che si propongono come letture da diporto, leggere, spiritose, ironiche, intelligenti - che pretendeva di classificare le donne secondo categorie che si volevano, se non proprio oggettive, certo razionalmente fondate, e tese a individuare modelli "tipici" e facilmente riconoscibili, psico-antropologicamente standardizzati, di femminilità; credo che avesse come titolo qualcosa come I venti tipi di donna.
 Nonostante fosse chiaro fin dall'inizio che l'autore - o gli autori, ora non ricordo - non intendessero prendersi troppo sul serio, quel misto di scanzonata superficialità e di capziosa acribia tassonomica che costituiva lo stile di fondo del libro finiva per ricalcare una serie di luoghi comuni sul genere femminile la cui bonaria presa in giro altro non era, di fatto, che una forma di legittimazione; e siccome, in questo modo, l'impressione complessiva era che il libro prendesse molto più sul serio di quanto dava mostra di fare la sagacia dei principi di classificazione adottati, l'effetto finale era piuttosto deprimente: venti tipi di donna sembravano davvero al costernato lettore o troppi o troppo pochi.
 A tutt'altro livello di complessità anche All that Man is rischia di cadere nella medesima trappola: il libro, infatti, si compone di nove racconti "esemplari" che individuano nove figure maschili molto diverse tra loro, e colte in momenti diversi della loro vita. Queste nove persone, nella loro caleidoscopica capacità di declinare in maniera differente pulsioni, aspirazioni e problemi esistenziali dalla radice consimile, dovrebbero illustrare in maniera esauriente agli occhi del lettore, come recita il titolo, Tutto quello che è un uomo.
 Il fatto è che, in questo caso, la trappola non scatta. Non scatta, prima di tutto, perché i nove racconti hanno uno sviluppo narrativo, e la scrittura narrativa, come sottolinea Annie Ernaux, ha quasi sempre la magica capacità di "disseppellire cose, magari anche una soltanto, irriducibile a ogni sorta di spiegazione - psicologica, sociologica o quant'altro -, una cosa che sia il risultato del racconto stesso, e non di un'idea precostituita o di una dimostrazione".
 Non scatta perché le vicende dei nove racconti, messe in ordine, disegnano lo sviluppo della vita umana dall'adolescenza alla vecchiaia, ma lo fanno con quel tanto di sfasamento tra un racconto e l'altro da frustrare la tentazione di trasformare i singoli pezzi narrativi nei capitoli di una sorta di unico romanzo a tesi.
 Non scatta, soprattutto, perché in ogni racconto vige la focalizzazione interna: il punto di vista adottato è sempre quello del personaggio di cui si racconta la vicenda, e questo porta il lettore all'immedesimazione, e nello stesso tempo crea quel senso di indeterminatezza rispetto al futuro che rende più avvincente la narrazione e i suoi protagonisti, e li sottrae a qualsiasi sforzo di classificazione. In più, le storie raccontate hanno tutte un finale ostentatamente "aperto".
 Certo, taluni voluti schematismi, che tendono a riportare tutto questo entro una ricercata cornice concettuale, permangono: l'età dei protagonisti dei racconti è progressivamente crescente, e le vicende raccontate si svolgono in mesi dell'anno che vanno in successione da aprile a dicembre, a tematizzare allegoricamente una corrispondenza tra la stagione dell'anno e la stagione della vita attraversata dai personaggi.
 Il primo racconto (che si svolge in aprile) ha come protagonista Simon, un riflessivo diciassettenne inglese che passa le vacanze viaggiando per l'Europa con Interrail insieme al suo amico Ferdinand. Simon appare costantemente dimidiato tra la curiosità di conoscere i luoghi di cui ha letto sui libri e che ha sognato di visitare, e il senso di spaesamento che gli provocano le situazioni per lui inedite in cui si trova suo malgrado, o lo scarso feeling che si palesa con il suo compagno di viaggio. Tanto che spesso finisce per chiedersi: Che ci faccio qui?. Così a Berlino, dove Ferdinand insiste per pernottare a casa di Otto, un ragazzo piuttosto scombinato in cui si sono già precedentemente imbattuti nel corso del loro viaggio; così a Praga, dove la signora quarantenne che li ospita in una camera in casa propria - la moglie di origine serba di un ex calciatore che passa le giornate a fumare indossando una vestaglia piuttosto provocante - tenta di sedurre Simon, ma poi, di fronte alla reticenza di quest'ultimo, ripiega su Ferdinand, che al contrario cede alla tentazione senza dare mostra degli scrupoli dettati all'amico dalla sua ipersensibilità.
 Il secondo racconto (maggio) narra l'avventura di Bernard, un ventiduenne francese di Lille, di famiglia proletaria, che viene licenziato dallo zio imprenditore - presso cui aveva cominciato da poco a lavorare dopo aver mollato l'Università - quando, alla sua svogliatezza, aggiunge la pretesa di usufruire di una settimana di ferie non ancora maturate. Le ferie gli servono per andare a Cipro con il suo amico Baudouin - studente universitario figlio di un dentista, che versa in condizioni economiche ben più floride delle sue -, con cui ha programmato la vacanza, ma che si tira indietro proprio alla vigilia della partenza. Bernard, avendo ormai prenotato e non potendo recuperare i soldi spesi, parte a malincuore da solo, "come uno sfigato". A Cipro si trova ad alloggiare in un albergo di second'ordine, lontano dal mare, privo di aria condizionata, in una stanza dove persino la doccia è fuori uso.
 In maniera del tutto inattesa, il suo soggiorno cipriota subisce una svolta quando, nella sala da pranzo dell'albergo, Bernard incontra Sandra e Charmian, madre e figlia, due burrose inglesi dall'appetito pantagruelico, dalla mole immensa, dal fascino paradossale e quasi ipnotico: estremamente ciarliera la prima, assolutamente silenziosa la seconda. L'incontro si trasformerà presto in una boccaccesca vicenda che vedrà Bernard gratificare della sua esuberante vitalità erotica prima la figlia e poi la madre.
 Al centro del terzo racconto (giugno) vi è invece Balàsz, un ventottenne ungherese, ex militare di stanza in Iraq, che nella vita civile ha trasformato la sua passione per il fitness in un lavoro diventando personal trainer in una palestra. Per arrotondare il suo magro stipendio, Balàsz accetta di fare da guardaspalle a Gàbor - un giovane cliente della palestra che ha accumulato una notevole quantità di denaro con traffici misteriosi e probabilmente piuttosto loschi - e alla sua fidanzata Emma - splendida ragazza dalla prorompente fisicità - durante un viaggio di affari a Londra. Il problema è che Balàsz è più o meno innamorato di Emma; e che, come ha presto modo di scoprire, il "viaggio di affari" organizzato da Gàbor ha lo scopo di trasformare Emma in una prostituta d'alto bordo disposta a concedersi a uomini molto ricchi e importanti che vogliono soddisfare i propri capricci con la garanzia di un'assoluta riservatezza.
 Quando uno dei clienti londinesi di Emma si mostra un po' troppo aggressivo, e la ragazza chiede aiuto, però, il muscoloso Bàlasz interviene picchiando selvaggiamente l'uomo e compromettendo in questo modo i "progetti imprenditoriali" di Gàbor e del suo socio locale, Zoli. Bàlasz viene licenziato in tronco, ma capisce presto che non è un grosso problema; ha ancora tutta la vita davanti a sé, e una quantità di nuove possibilità da cogliere.

 David Szalay

 Il quarto racconto (luglio) parla dei giorni destinati a cambiare la vita di Karel, un brillante filologo di origine belga sulla trentina, che vive a Londra e lavora in Università. Karel è stato incaricato dal padre di Waleria, la giornalista polacca con cui ha ultimamente intrecciato una relazione - che è il capo della polizia e uno degli uomini più potenti della sua città -, di condurre guidando fino in Polonia il lussuoso Suv d'importazione che ha appena acquistato. Karel vuole approfittare del viaggio per organizzare una piccola vacanza di qualche giorno in Germania con Waleria. E' la prima volta che si sente tanto bene con una ragazza. Quando la incontra a Francoforte, però, i programmi di Karel vengono sconvolti dall'annuncio che ella ha in serbo per lui: Waleria ha appena scoperto di aspettare un bambino. Angosciato dalla novità, Karel - che non si sente pronto a diventare padre, che tiene troppo alla sua libertà, e che teme che la sua carriera in impetuosa ascesa venga compromessa da eventuali responsabilità genitoriali - ingiunge bruscamente alla fidanzata di ricorrere all'aborto. La ragazza, che è di tutt'altro avviso, ci rimane molto male; il narratore li lascia così, sospesi intorno all'urgente decisione che sono costretti a prendere e che, in un modo o nell'altro, muterà per sempre le loro esistenze. Hanno tutto il tempo, se vogliono è una delle ultime frasi che viene lasciata ambiguamente cadere in chiusura della narrazione; ma è proprio così?
 Kristian, un giornalista danese di 38 anni, vicedirettore del principale tabloid pubblicato a Copenhagen, è il protagonista del quinto racconto (agosto). Kristian ha una moglie e due figlie, che però non vede praticamente mai, perché vive per il lavoro e passa tutto il suo tempo in redazione o in viaggio per seguire uno dei casi che il suo giornale intende documentare. La narrazione lo coglie alle prese, per l'appunto, con uno di questi "casi". Un collega ha raccolto le prove della relazione extraconiugale fra un Ministro del Governo danese in carica e la moglie di un ricco uomo d'affari. Nei giorni che vedono Kristian mettersi sulle tracce del Ministro - che sta passando qualche giorno di vacanza in Spagna - sulla base delle informazioni precedentemente raccolte, abbiamo modo di constatare come un riconoscimento puramente formale dei principi della deontologia professionale, l'opportunismo e una enorme dose di cinismo abbiano sostituito totalmente in quest'uomo l'etica e il rispetto di se stesso e degli altri. In fondo la sua vita si è trasformata in qualcosa di simile a una campagna militare, dove l'amore è stato rimosso come una cosa secondaria o comunque superflua, e le regole che contano sono esclusivamente quelle della "guerra".
 Il titolo del sesto racconto (settembre) potrebbe essere: La vita non è un gioco. James ha 44 anni, vive a Londra, e lavora per un grande gruppo immobiliare che si occupa della commercializzazione di prestigiosi complessi residenziali destinati ai turisti nelle più belle valli dell'arco alpino. E' abile e brillante nel sua professione, guadagna bene, ha una moglie e due figli che ama, ma difficilmente lo si potrebbe dire felice, perché sente pesare come un macigno sulle sue spalle la responsabilità di tutto quello di cui deve occuparsi: la sua famiglia, la sua casa, il suo lavoro; sente di avere un'età in cui non è più concesso scherzare, eludere le proprie incombenze, commettere errori: non c'è più nessuno spazio per la leggerezza e per la sperimentazione di cose nuove.
 Così, quando durante un viaggio di lavoro in Francia, in una bellissima vallata verde, incontra Paulette, una madre single di ventinove anni che lavora per un costruttore partner del suo gruppo immobiliare, e fra i due scatta un feeling immediato, e sembra sul punto di nascere un rapporto che va ben al di là della semplice stima professionale e della pura simpatia umana, James si tira indietro, perché ormai sa inequivocabilmente che la vita non è un gioco.
 Nel settimo racconto (ottobre), Murray è un uomo alla deriva: ha 55 anni, e dopo aver perso il lavoro per via delle sue negligenze ha deciso di trasferirsi dalla Gran Bretagna in Croazia, per lasciarsi alla spalle il suo Paese, la sua famiglia (il fratello e la sorella con cui non è mai andato d'accordo, come apprendiamo in apertura di narrazione, quando Murray si presenta, in ritardo, al funerale di sua madre), e tutta una società di cui non è mai riuscito a sentirsi propriamente parte. Vuole vivere da signore, lui, in un posto molto meno costoso di quello in cui è nato, sfruttando quello che ha ereditato e quello che gli è rimasto dal periodo in cui lavorava. Alla prova dei fatti, però, si rende presto conto che le cose non stanno esattamente come aveva immaginato: neppure in Croazia le sue scarse sostanze gli bastano per vivere agiatamente, non gli servono per farsi guardare da donne più giovani di lui, per procurargli gli amici che non ha mai avuto, né la considerazione sociale di cui non ha mai goduto. Murray finisce per realizzare che è e rimarrà agli occhi di molti un mezzo fallito - un miserabile - anche in Croazia, come lo era a Londra. Fanculo tutti quanti è la frase che meglio rappresenta il suo stato d'animo, e che potrebbe quasi diventare il suo motto.
 L'ottavo racconto (novembre) narra la vicenda Aleksandr, un tycoon di 65 anni, un ricchissimo uomo d'affari di origine russa - figlio di un membro della nomenklatura sovietica -, che al momento del crollo dell'Urss è stato abbastanza abile e spregiudicato da riuscire a sfruttare la sua posizione dentro quello che era il Ministero dell'Economia per costruirsi un impero finanziario, diventando una specie di "re del ferro". In realtà, però, dietro il velo delle apparenze - che lo vedono spostarsi tra automobili e natanti di lusso, circondato da innumerevoli uomini di servizio pronti a soddisfare qualunque suo capriccio -, il suo impero finanziario è sul punto di sgretolarsi: sua moglie - la sua terza moglie - lo ha lasciato proprio nel momento in cui una serie di investimenti sbagliati e una causa temerariamente intentata contro un suo vecchio nemico minacciano di intaccare gravemente le sue sostanze. Come gli fa notare Lars, l'avvocato che cura i suoi interessi, gli toccherà vendere il suo mega yacht, il suo jet privato, le sue case, le sue vigne, la maggior parte delle sue aziende. Gli rimarrà ancora di che vivere agiatamente, ma il suo potere economico sarà completamente annullato. Per chi è abituato a vedersi e a essere trattato alla stregua di un sovrano, una simile prospettiva risulta assolutamente deprimente; tanto che l'uomo pensa di togliersi la vita, senza però avere né la determinazione né il coraggio per farlo davvero. La conclusione mette a fuoco il profilo di un individuo che ha sacrificato al potere ogni cosa, e che, perso il potere, appare inevitabilmente finito.
 L'ultimo racconto (dicembre) ha per protagonista Tony. Tony ha 73 anni, ed è un ex membro del corpo diplomatico inglese ora in pensione (ci viene detto che in passato ha lavorato con John Major e con Tony Blair). Nel corso della narrazione scopriamo anche che è il nonno di Simon, il protagonista del primo racconto: quasi a voler chiudere idealmente il cerchio dell'impianto diegetico della raccolta. Lo troviamo in Italia, nella casa che con la moglie ha comprato nella campagna emiliana alla fine della sua carriera: un buen retiro, forse non elegante come quello che aveva sognato di possedere sulle colline toscane, ma a cui negli anni ha avuto modo di affezionarsi.
 Tony è un uomo ancora lucido e capace, ma su tutto quello che fa e su tutto quello che sogna incombe inevitabilmente il pensiero di essere ormai prossimo al crepuscolo della propria esistenza; e ciò che è più doloroso è il fatto che l'età non gli ha regalato la saggezza, né lo ha aiutato a trovare la chiave per dare un senso compiuto alla propria vita, né gli ha concesso il privilegio di fare pace con le proprie debolezze, le proprie paure, le proprie angosce; anzi, se possibile le ha acuite. Così, il rapporto con la moglie Joanna (che è più giovane di lui e che ancora lavora), che in alcuni frangenti era stato buono, è stato definitivamente incrinato dall'emergere della sua incontestabile, inconfessata, perpetuamente elusa omosessualità; i successi ottenuti nel suo lavoro, che aveva sperato potessero lasciare un durevole ricordo di lui, gli sembrano tutto sommato poca cosa. La sua unica consolazione è l'affetto dell'amatissima figlia Cordelia, la madre di Simon.
 E' proprio Cordelia a stargli vicino durante la convalescenza dopo un brutto incidente d'auto avuto in Italia, presso l'abbazia di Pomposa, quando le ombre della sua condizione si addensano chiudendogli completamente l'orizzonte. Ma neppure Cordelia può cambiare le cose, neppure il suo amore può fare da argine all'ineluttabile distruttività del passare del tempo.
 Forse - come suggerisce a Tony un verso di una poesia del nipote Simon che Cordelia gli ha orgogliosamente mostrato - all'uomo non è concessa altra soluzione per trovare la serenità da quella che comporta l'accettazione della propria impermanenza: l'abbandonarsi al tempo, che è l'unica cosa che dura, e la cui durata comporta di per sé la dissoluzione di ogni altra cosa.
 Il libro è estremamente suggestivo e ben scritto, e molti dei personaggi sono concepiti in maniera tale da risultare davvero memorabili. I parametri che vengono presi in considerazione per costruire la psicologia di uomini dal profilo umano tanto diverso sono, alla fine dei conti, pochi e ricorrenti: la coscienza di sé, la coscienza del tempo che passa, il rapporto col sesso, il rapporto col denaro, l'ambizione, la paura. Non c'è Dio, e l'amore è qualcosa di estremamente labile, transeunte, inconsistente. Ognuno appare, alla fine, desolatamente solo.
 La lettura è assolutamente interessante; ma il limite più grosso di quest'opera resta nel fatto che, con tutti i suoi pregi, si tratta di un libro fondamentalmente presuntuoso, a tratti un po' troppo meccanicamente schiavo dell'articolato impianto concettuale secondo cui è stato concepito.

Voto: 6,5

sabato 6 gennaio 2018

Patrick Modiano, "Dall'oblio più lontano", Einaudi


 Pubblicato in Francia nel 1996 con il titolo Du plus loin de l’oublie, ma proposto solo ora al pubblico italiano, questo libro presenta molti dei caratteri e dei temi tipici della narrativa di Modiano.
 La questione centrale che viene affrontata letterariamente è quella della resistenza delle tracce del passaggio degli uomini nel mondo: della persistenza - se così possiamo dire - della loro “aura” nei luoghi che hanno frequentato, ma soprattutto nella memoria e nella psicologia profonda delle persone a cui si sono accompagnati. Un fenomeno tanto forte che talvolta pare diventare magicamente possibile annullare le distanze cronologiche, e aprire delle "brecce" nel tessuto del tempo, in cui scivolare per sparire e riemergere magari in un’epoca lontana, di cui recuperare intera l’essenza.
 In questo caso i poli temporali attorno a cui si articola il racconto sono tre: il 1964, il 1979 e il 1994.
 Il 1964 è l’anno in cui si svolgono quasi tutti i fatti argomento della narrazione. Il protagonista-narratore, ancora pressoché ventenne, vive a Parigi, in una piccola, scalcinata pensione nel Quartiere Latino, e conduce un’esistenza da bohémien: per raggranellare i pochi soldi che gli servono per sbarcare il lunario vende alle librerie della zona vecchi testi, per darsi un contegno finge di essere uno studente, e riguardo al futuro coltiva aspirazioni quanto mai vaghe.
 Un giorno, in place Saint-Michel, fa la conoscenza di un uomo e una donna più o meno suoi coetanei, che lo avvicinano per chiedergli dove si trovi l’ufficio postale più vicino; si tratta di Gérard Van Bever e di Jacqueline, che come lui alloggiano in un vecchio albergo, in quai de la Tournelle, e si mantengono avventurosamente giocando d’azzardo in vari Casino in provincia. Van Bever indossa sempre un cappotto troppo grande di tessuto spigato, e ha l’abitudine, quando si siede, di incassare la testa nelle spalle come se fosse un fantino. Jacqueline porta una giacca di pelle troppo leggera per i rigori dell’inverno parigino, tossisce continuamente, ama passare ore al flipper, e si stordisce sniffando etere. I due cercano in ogni modo di raggranellare il denaro necessario per trasferirsi a Maiorca, dove sostengono di conoscere uno scrittore di gialli, un certo Mc Givern, a loro dire disposto a ospitarli.
 A poco a poco la frequentazione tra il protagonista e la coppia si fa sempre più assidua, e il caffè Dante, in rue Dante, diviene l'abituale luogo di ritrovo del piccolo gruppo; sovente Jacqueline rimane a Parigi quando Van Bever è impegnato nelle sue trasferte, durante le quali spesso lo accompagna un misterioso personaggio più anziano di tutti loro, un certo Cartaud, un dentista che sembra interessato soprattutto alla ragazza. A volte, senza che Van Bever si opponga, Jacqueline si lascia avvicinare da lui, sperando forse di ricavarne dei vantaggi economici.
 Quando però tra Jacqueline e il protagonista nasce in maniera inattesa una speciale intimità, d'improvviso tutto cambia: i due nuovi compagni, approfittando di una delle ricorrenti assenze di Van Bever, organizzano il furto di una valigetta di metallo appartenente a Cartaud e contenente del denaro, e insieme fuggono a Londra.

Patrick Modiano

 A Londra, nonostante il contenuto della valigetta sottratta a Cartaud si riveli meno interessante di quanto avessero creduto, i due ragazzi provano a dare una svolta alle proprie vite, grazie anche ai nuovi, strani personaggi in cui casualmente si imbattono e che offrono loro il proprio sostegno: Peter Rachman, un danaroso immobiliarista quarantenne dalla tormentata biografia, che nasconde un passato forse terribile; Linda, una giovane ed estroversa inglese, che concede a Rachman i suoi favori senza peraltro restargli fedele; Michael Savoundra, un aspirante regista cinematografico che spera di trasformare Rachman nel produttore del film ambientato a Parigi di cui ha già scritto la sceneggiatura.
 Ispirato proprio dalla sceneggiatura che Savoundra gli ha lasciato onde correggerne - grazie alla sua conoscenza di Parigi - eventuali imprecisioni topografiche, il protagonista, inopinatamente, si mette a scrivere con un entusiasmo mai provato un romanzo tutto suo. Jacqueline, invece, si immerge sempre di più nella vita notturna della swinging London e, da un giorno all’altro non torna più a casa, sparendo senza lasciare traccia.
 Con un ardito salto temporale di ben trent’anni, a questo punto, ci spostiamo nella Parigi del 1994. Il protagonista, diventato nel frattempo uno scrittore professionista, un pomeriggio, tornando a casa in metropolitana dopo essere stato in place d’Italie, incontra casualmente una donna in cui gli sembra di riconoscere Jacqueline; la camminata è la stessa del 1964, soltanto un po’ più lenta e incerta. La segue dentro il treno, e poi fuori dalla stazione a cui scende, lungo i viali alberati che percorre, e infine dentro un negozio di alimentari; non ha però il coraggio di avvicinarla.
 In realtà, quel fortuito incontro ha tutti i caratteri del deja vu, perché il personaggio che nel libro dice "io" un’avventura simile a quella l’ha già vissuta, lì a Parigi, quindici anni prima, nel 1979; quando esattamente quindici anni erano passati dalla sparizione di Jacqueline a Londra.
 Allora, nella canicola di agosto, nella città deserta, in un frangente in cui i suoi legami col presente gli sembravano quanto mai labili, seduto su una panchina in un giardino pubblico nei pressi di Porte de la Muette, il protagonista aveva sentito il rumore di una macchina che parcheggiava. Voltatosi, aveva riconosciuto nella donna castana che di spalle scendeva dall’auto proprio Jacqueline. Portava i capelli più corti di quindici anni prima, ma per il resto non era cambiata molto. Anche allora l’aveva seguita fino al portone d’ingresso dello stabile in cui era entrata. Poi, tornato a casa, aveva cominciato a fare ricerche sugli inquilini del condominio per verificare se vi abitasse effettivamente una certa Jacqueline.
 Nonostante l’inchiesta fosse stata infruttuosa, non si era dato per vinto: una sera, con disinvolta sfrontatezza, si era introdotto clandestinamente a una festa che si teneva dentro un attico dello stabile, l’appartamento di un certo Darius. E lì aveva incontrato Jacqueline; solo che non si chiamava più Jacqueline, ma Thérèse, era sposata, e non dava l’impressione di riconoscerlo. Anzi, non sembrava cogliere affatto le sue allusioni al comune passato.
 Eppure, alla fine della festa, aveva fatto in modo di rimanere sola con lui, l’aveva seguito fino alla sua auto, e gli aveva rivelato la sua vera identità, pur senza aggiungere molto altro e senza dargli spiegazioni del suo contegno.
 Il giorno dopo il protagonista era tornato a cercarla; ma aveva scoperto che Thérèse e suo marito erano improvvisamente partiti per Maiorca, forse in via definitiva.
 Perché la donna si era comportata così? Chi era diventata in realtà Jacqueline? E quanto era rimasto in lei della ragazza distratta e sognate di quindici anni prima? Tutti interrogativi destinati a rimanere insoluti: Jacqueline era sparita di nuovo, portando con sé la chiave del suo mistero.
 D'altra parte, che senso hanno simili interrogativi? Anche ritrovandola ora, nel 1994 - il tempo presente della scrittura - cosa potrebbe rivelare davvero "Jacqueline" di sé? Di quello che è stata? Di quello che è diventata? Forse, il ricordo di una persona che abbiamo conosciuto e il nome con cui la identifichiamo sono come la serie di ingannevoli insegne che continuano a campeggiare sopra i negozi ormai chiusi da tempo di una via che una volta ci era famigliare, ma che ha visto mutare totalmente la sua natura e i suoi frequentatori: non ci dicono nulla di davvero utile.
 Come quasi tutti i libri di Modiano, anche Dall’oblio più lontano è un testo di piacevolissima lettura e dal grande potere evocativo. L'indagine sull'importanza e l'effettiva consistenza del nostro passato individuale trascolora in esplorazione del potere e dei limiti della nostra memoria, dei suoi trabocchetti, delle sue suggestioni, delle sue finzioni, delle impronte che conserva e che la modellano.
 Probabilmente, però, tutto questo appare qui un po’ meno potente di quanto non sia nei romanzi migliori dello scrittore premio Nobel.

Voto: 6,5