sabato 29 febbraio 2020

Mariangela Gualtieri, "Quando non morivo", Einaudi


 La poesia di Mariangela Gualtieri è una poesia che costantemente trascorre dal sentimento alla razionalità, dal senso del divino a quello dell'umano, e si configura come una versificazione di tipo lirico-filosofico: la sua ultima raccolta, Quando non morivo, ne è uno splendido esempio. 
 Le 6 sezioni in cui sono suddivisi gli 82 componimenti di cui consta il libro disegnano un percorso che, partendo dalla precisazione delle caratteristiche e dei confini dell'io lirico, passando attraverso una rassegna degli elementi del mondo naturale con cui la sostanza ontologica ed emotiva di ciascuno di noi entra in contatto e in risonanza (animali, vegetali, bambini, uomini), giunge a tratteggiare l'idea - o forse sarebbe meglio dire l'ipotesi - di un Dio da invocare e da provocare; un Dio che va oltre il senso comune, anche se dal senso comune (traduzione degli slanci e dei limiti della nostra povera umanità) non può che prendere le mosse: un Dio che, nel momento in cui si fa riferimento alla tradizione cristiana, sembra quantomai lontano, sordo alle nostre preghiere, e soltanto quando da quella tradizione ci si discosta per fare propria una visione in qualche modo panteistica dell'universo torna a risultare vicino, familiare, amico.
 La prima sezione, intitolata Ecce cor meum, si apre con un componimento, La celeste pazzia, che è una vera dichiarazione di poetica ("Procedi piano. Lascia che la mano / esegua il fragile dettato. / Abbi fede in quel niente / che viene - quel niente che succede") e chiarisce come un atteggiamento onestamente contemplativo sia la chiave attraverso la quale l'io poetante - senza alchimie, forzature o pretesi esoterismi - cerca di comporre il puzzle di una coerente visione del mondo. 
 E' questo il punto di partenza per sondare le virtù e i limiti del nostro essere, che si materializzano nella nostra naturale propensione a osservare la realtà e a elaborare quello che osserviamo ("Spingo nella frana i miei pensieri / poi guardo il cielo"), e nel nostro bisogno degli altri, nel nostro bisogno di amore (tanto per ricorrere a una parola e a un concetto forse abusati, ma certamente ineludibili: "La parola Amore mi gira intorno. / Vuole sempre venire / in ogni riga"). 
 Un bisogno talmente evidente da risaltare ancora di più quando non viene soddisfatto ("A te che manchi in questa stanza / e il tuo mancare è già gran cosa / che ingravida il mio vuoto nell'attesa", laddove la forza dell'endecasillabo a maiore che chiude il periodo conferisce alla potenzialità insita nella mancanza un peso straordinario).
 Nel definire i confini del nostro essere, naturalmente, si deve fare i conti anche con la nostra sostanza corporea, che ci inchioda alla nostra piccolezza ("Questo corpo in pezzi di accetta / separato. Questo legno ossificato. / Stavo fra le lenzuola come un seme /interrato."), e con la multiforme variabilità dell'universo a cui ci relazioniamo ("ha molte facce / l'amore mio. Umane facce / e musi. Ha tutte le parole. / ha note, sinfonie, voci cantate", in Il quotidiano innamoramento). 
 Sulla scorta di una ricognizione identitaria così definita, l'atto stesso del pregare non costituisce un gesto di devota sottomissione a un essere superiore, ma uno strumento per entrare in totale sintonia con il cosmo ("Pregare è ascolto immoto. / Fa bene al prato. Fa bene al globo / intero. Fa bene a me / e a te."). Tanto che persino l'invocazione di Maria diventa occasione per rimuovere quanto di astratto e di asetticamente neutrale c'è nella figura della Madonna ("Creatura strana, sembri, che non ha / intestino, una sacra vagina / un utero, uno stomaco pieno") e richiamare la sua materiale animalità ("col tuo corpo vivo / di madre che sconquassa per l'uscita / del nato, tutto bagnato, tutto / ancora animale", in Domande a Maria I).
 Proprio agli animali, intesi come esseri viventi che condividono il nostro destino, è dedicata la seconda sezione del libro, Animali di silenzio. Cani, gatti, caprioli, uccelli persino insetti appaiono affratellati all'uomo dall'identica esposizione alle bellezze del mondo, agli entusiasmi dell'istinto e al mistero della morte. Più dell'uomo, però, spesso gli animali paiono vicini alla divina armonia dell'universo ("Ancora nella grande / gattesca pace. Qui. / Il frullio delle fusa / tremola l'aria. Protegge - / lo sappiamo - / alza tutto intorno / delicata imbattibile barriera"; "E inventa l'ape, che cuce fiore con fiore, / ebbra la invoglia nell'intima corolla / dove lei succhia fino a gonfiarsi / d'un polline d'amore").
 La stessa divina armonia pervade il mondo vegetale, protagonista principale della successiva sezione, Riassunto della creazione, dove, ad esempio, un fiore può diventare l'immagine stessa del paradiso ("Ti vedo fiore! Entro nel tuo enigma. / Io mi riposo in te che sei guanciale / e camera celeste per nuotare / dentro la luce e sminuire / fino alla pezzatura dell'insetto - / e immobile accollarsi quel tuo mare / di particelle con odore. O nel tuo / abbeverare la bellezza nel suo contorno / di polveri. Fiore - nient'altro c'è / terrestre come te che prometta / un paradiso. Nient'altro come te / s'è preso simile impronta / d'un mondo oltre il mondo / e con tremore annuncia / un lato spalancato / il perfetto infinito presente del fiorire.") e una pineta, nel suo insieme, uno stupefacente, miracoloso organismo vivente (La guardavo / stupefatta dal suo stare per dire / dal suo non dire dal suo non fiatare. / La pineta è un miracolare. / Oltre quella di là c'è intero il mare").  

 
 Mariangela Gualtieri

 Il senso del divino è addirittura nel titolo della quarta sezione, Divinità domestiche. Qui i protagonisti sono i bambini, capaci di portare come nessun altro la luce del paradiso dentro le nostre case ("Quando si sveglia / ha tracce di paradiso / sulla faccia - il bambino. / Pollini d'altro mondo"; "Eccolo, così tutto adorno / magnifico nei suoi sette anni / entrando in cucina emana uno splendore / di giovane animale, splendore / quella sua faccia nella cucina normale - / divinità penetrata / per noi venuta vicino al frigorifero"). Tenerezza, voglia di protezione, gratitudine per la trasfigurazione del reale che un bambino può donare si fondono in un tutt'uno, in versi di infinita dolcezza ("Il tuo respiro / è sentiero / che nel buio percorro / dal mio letto alla culla / dalla tua culla al mio petto / e vinco la paura. // E ti proteggo / tu che proteggi la casa / e la fai posto bello / di questo mondo. / Dormi nido rotondo / dormi mia rondinella").
 Specie con orchi e animali estatici è invece la sezione che, finalmente, cerca di mettere a fuoco l'uomo, con tutta la sua desolante debolezza, con tutta la sua pochezza e la sua ferocia ("Corpi grossi / ha la specie ora. E teste indebolite. / Si torna indietro. Ancora si prova / la scena primitiva del più forte / la scena di uno che bastona / uno comanda e un popolo / cieco lo sostiene contro se stesso"), non senza riferimenti alle meschinità politiche caratteristiche del presente ("Bussano giù al porto - i supplici. / In fuga da guerra siccità / miseria spietatezza - non sanno che ora noi / ce le cresciamo dentro, queste erbacce").
 Ma l'uomo è certo anche altro: aspirazione alla grandezza ("Abbiamo forse assaggiato / un'acqua di comete e resta celebrata in noi / tutta la turbolenza delle alture / quell'aspirare a una magnitudine / tanto immensa che forse solo / la giovinezza, solo solo / l'agonizzante / può reggere dentro di sé"), capacità di cogliere la bellezza del mondo ("fra tutte bestie ricolme di paura // questo solo animale circolava estatico / oggi nel bosco"), propensione alla generosità e alla compassione ("Piango per bene io / con cura, lenta piango e senza rumore. / Da qualche parte / qualcosa va a posto se piango").
 Tanto che l'ultima sezione, Requiem alle piccole e grandi ombre, diventa un inno all'umanità; un inno all'umanità contrapposta, con tutti i suoi difetti, all'algido profilo di un Dio lontano e onnipotente quale quello che certa tradizione ci consegna; e insieme un inno all'umanità di Dio, capace di sciogliersi nella sua misericordia, capace di scomporsi e scomparire nella persistente vitalità del creato ("Chiedo per voi, morti nostri, un'adesione / a tutta la bellezza che vediamo / crescerci intorno"; "Dunque si può. Dire mi dispiace / dire perdonate e ottenere perdono"). A comporre infine l'idea di quel problematico, onnipervasivo panteismo di cui parlavamo all'inizio.
 La migliore poesia della raccolta, per me, è La strada per tornare compresa nella sezione Animali di silenzio. Eccola:

Mi avvicino al centro 
di un fetore.
Nel campo grande una morte
spande il suo putrido canto
muto fra l'erba.
Mi proteggo il respiro.
Avanzo con spavento.

Chi giace? Chi è morto?
Portento d'aria guasta
potenza che tace e ad un tempo
grida così forte s'impone
su tutto il panorama.
Entra dentro nel dentro
della voce. Scuote. Spaventa.
Nessuna scena di morte dipinta,
ripresa, ha la forza invisibile
di quest'aria guasta.

Ecco il dopo della battaglia
quando qualche donna pietosa
cammina nel fango a rigirare i corpi
in cerca di una faccia di un soffio
o esile lamento. Questo fetore
sarà di ognuno. Ce lo portiamo
dentro. Non lo dimenticare, mi dico.

Ecco la disadorna morte. Il gran
rimpasto delle creature. Non lo dimenticare
questo disfarsi del corpo. La strada per tornare.

Giace a brandelli, solo - ciò che era
leggiadro, elegante. Fra l'erba alta giace
dentro un lezzo. Il giovane capriolo.

Voto: 7

domenica 23 febbraio 2020

Aldo Simeone, "Per chi è la notte", Fazi Editore


 Ambientato nell'immaginario villaggio di Bosconero, in Garfagnana, durante la fase più feroce della Seconda guerra mondiale, Per chi è la notte ha come protagonista Francesco Pacifico, un ragazzino di 11 anni che vive insieme alla mamma e alla nonna nel paese che il conflitto ha svuotato di tutti gli uomini abili. 
 Il padre di Francesco - carbonaio di professione per lunga tradizione familiare -, però, non ha seguito la via del fronte come gli altri; fiero oppositore del regime fascista, si è dato alla macchia, trasformandosi in un disertore e, forse, in un partigiano. 
 Francesco, così, è diventato per tutti "il figlio del traditore", tenuto a distanza dagli altri ragazzi del paese, guardato con sospetto e talvolta trattato con scherno. Uno solo gli è rimasto amico, o meglio, non gli si mostra nemico: Secondo, un burbero sedicenne piuttosto male in arnese, convinto sostenitore del duce, che condivide il senso di esclusione e di frustrazione di Francesco (trattandolo però da inferiore e senza mai chiamarlo per nome), perché vorrebbe essere un soldato come suo fratello Primo, e invece è relegato nel novero dei civili insieme alle donne, ai bambini, ai vecchi e agli inabili.
 Il borgo sorge in una zona impervia e isolata e, nei discorsi di Francesco e Secondo, nei racconti della nonna del protagonista e - soprattutto - nelle sue fantasie di ragazzo, la paura della guerra e delle violenze che essa porta con sé si confonde con l'atavico terrore superstizioso suscitato dalle antiche leggende che narrano delle presenze sovrannaturali che popolano la foresta che circonda le case, il Bosco delle Sorti. Signori del bosco sarebbero gli Streghi, pronti a rapire e a tenere per sempre in ostaggio chi si avventuri nottetempo in territori vietati agli uomini e, sorpreso nella foresta, non sia in grado di fornire la risposta corretta alla fatidica domanda "Per chi è la notte?".
 E in effetti, in tempi turbolenti come quelli in cui la guerra infuria, le dinamiche dei fatti reali e gli incubi dettati dalla superstizione possono facilmente sovrapporsi, specie quando, dopo l'8 settembre 1943, tutto in Italia diventa più complicato: i fascisti diventano repubblichini, i tedeschi da alleati si trasformano in truppe di occupazione (prendendo presto possesso del paese), e il bosco vasto e intricato si rivela un nascondiglio perfetto per i gruppi partigiani che battono la zona, misteriosi e inafferrabili quanto, nella fantasie popolari, sono sempre stati gli Streghi.
 Del resto, esattamente come si è sempre raccontato che ci fossero dei "custodi del bosco" capaci di dialogare con gli Streghi, ora c'è chi si dice offra in segreto aiuto e sostegno ai partigiani. Fra di essi, in prima fila, don Dante, il parroco del paese, che insieme alla fida perpetua Ione pare nasconda in canonica figli di comunisti e piccoli ebrei facendoli passare per poveri orfanelli.

Aldo Simeone

 Secondo, intuita la presenza dei clandestini, per ottenere benemerenze presso le autorità vorrebbe smascherare il prete con l'aiuto di Francesco; soltanto che costui, cercando di sbirciare dentro la casa del parroco per compiacere l'amico, scopre uno strano ragazzino dai capelli rossi, un suo coetaneo - forse un ebreo - di nome Tommaso, con cui finisce per fare amicizia. I due diventeranno presto inseparabili.
 Grazie a Tommaso, Francesco troverà il coraggio per addentrasi nel bosco, prenderà a poco a poco confidenza con i suoi misteri e, facendosi guidare dalla sua curiosità e dalle sue paure, appiccherà fra gli alberi un incendio che, attirando l'attenzione dei tedeschi, scatenerà una travolgente reazione a catena: pattugliando il bosco, tedeschi e repubblichini troveranno il cadavere del fratello di Secondo, forse ucciso dai partigiani mentre tornava a casa dopo l'armistizio; durante l'azione di rastrellamento disposta di conseguenza dal colonnello Schroding, cinque dei sei componenti la squadra nazifascista cadranno vittime di un'imboscata dei partigiani; la rappresaglia decisa a quel punto dal colonnello colpirà - insieme a decine di altri paesani - la madre (scelta in quanto moglie di un "traditore") e la nonna del protagonista. Dal canto suo, Francesco riuscirà rocambolescamente a fuggire prima della strage nella foresta dove, fra i partigiani, ritroverà il padre; sperimenterà così una situazione speculare rispetto a quella vissuta fino a quel momento, essendo ora orfano di madre laddove prima era orfano di padre.
 La formula esoterica per chi è la notte si rivelerà, alla prova dei fatti, la parola d'ordine scambiata per riconoscersi dai gruppi di ribelli destinati, dopo molte altre atrocità, a uscire vincitori dal conflitto. Eppure, anche al cospetto della realtà effettuale, della sua concretezza e della sua crudezza, la dimensione misteriosa che custodisce i fatti del bosco non verrà mai meno nella mente di Francesco, neppure nel del grigiore del dopoguerra (che vedrà la conca di Bosconero trasformata in un lago artificiale, e il paese sommerso per sempre): la magia delle antiche leggende continuerà a fondersi nella sua memoria con le avventure materialmente vissute, e la figura stessa di Tommaso (scomparso nell'incendio del bosco) continuerà a vivere in lui come una proiezione vivida ma astratta della sua fantasia, una specie di amico immaginario indispensabile perché il suo processo di crescita possa compiersi.
 Il libro è sofisticato e avvincente, e si avvale di una scrittura originale e incisiva, non troppo elaborata sintatticamente, ma neppure banalmente plasmata sulle movenze del parlato; capace invece di una plastica mutevolezza, che la rende talora briosamente mimetica del vernacolo - in modo da conferire credibilità soprattutto al dominante punto di vista del piccolo Francesco Pacifico -, talaltra più fantasiosamente espressionistica e piena di inventività letteraria.
 Lo stile narrativo adottato pare nascere da un particolare amalgama tra alcuni elementi del modo di raccontare di Stephen King, l'approccio alla letteratura del mistero di Michele Mari (soprattutto per lo spazio concesso a temi di sapore gotico e grottesco, la prevalenza di una prospettiva infantile, i toni a metà tra l'enigmatico e l'orrorifico), e la precisione e la sobrietà descrittiva di certa letteratura italiana del secondo Novecento. 
 Il risultato è senz'altro gradevole; soltanto in prossimità della parte finale del romanzo i diversi ingredienti della narrazione sembrano non trovare più il giusto bilanciamento, aggrovigliandosi in una matassa che non rende giustizia alla consistenza del libro nel suo complesso.

Voto: 6,5 

domenica 16 febbraio 2020

Richard Yates, "Revolutionary Road", Minimum Fax


 Oggi voglio occuparmi di un romanzo che, dopo decenni di semi-oblio, è stato riscoperto nei primi anni del nuovo millennio, per arrivare a essere considerato da buona parte della critica uno dei classici americani del Novecento: Revolutionary Road di Richard Yates.
 La vicenda narrata ci porta negli Stati Uniti, a metà degli anni cinquanta, dove Frank ed April Wheeler - marito e moglie intorno alla trentina, con due figli - conducono un'esistenza apparentemente in tutto e per tutto simile a quella delle altre coppie giovani e meno giovani che vivono a Revolutionary Road, la strada appartata di un grazioso quartiere residenziale in un comune suburbano nella parte meridionale del Connecticut, non lontano dall'area metropolitana di New York. 
 Frank lavora nell'ufficio commerciale di una grande azienda che produce macchine calcolatrici - la stessa azienda in cui, per anni, ha lavorato suo padre, anche se il giovane vi è arrivato autonomamente e quasi per caso -, ma, con sprezzante noncuranza, considera il suo un impiego stupido e provvisorio, perché ha sempre dichiarato di avere altre aspirazioni.
 La bella April è colta e sa recitare ma, come la maggior parte delle mogli di Revolutionary Road, bada alla casa e ai figli.
 Fra Frank e April, che quando si sono conosciuti immaginavano un'esistenza meno ordinaria, i litigi sono frequenti: April è spesso insoddisfatta, e tende a scaricare sul marito il proprio malcontento, mentre Frank, sconcertato dalle ubbie della moglie e annoiato dalle incombenze in ufficio, non trova di meglio che cercare una via di fuga dalle sue frustrazioni nel rapporto adulterino con una giovane collega, Maureen Grube.
 L'idea che invece April concepisce per uscire dall'impasse in cui versa il suo rapporto con Frank è assolutamente radicale: abbandonare gli Stati Uniti e l'esistenza meschinamente borghese in cui è impegolata per trasferirsi in Europa - preferibilmente a Parigi - insieme al marito e ai figli. Una volta raggiunto il vecchio continente, lei cercherà un lavoro presso gli uffici di rappresentanza diplomatica degli Stati Uniti, e lascerà a Frank il tempo di trovare la strada giusta per realizzarsi.  
 L'uomo, sebbene intraveda delle difficoltà evidenti nel piano della moglie, viene dapprima contagiato dall'inedita vitalità da cui vede animata April; quando però, per via di una fortuita combinazione di eventi, l'azienda per cui lavora gli prospetta allettanti possibilità di carriera e, contemporaneamente, April rimane nuovamente incinta, l'idea di abbandonare gli Stati Uniti, ai suoi occhi, perde tutto il suo fascino.
 Da quel momento in avanti, tutti i suoi sforzi saranno volti a manipolare la volontà di April facendo leva sulle sue debolezze emotive, sulle remore derivanti dall'infanzia difficile che la donna ha vissuto e sui condizionamenti sociali che la fanno esitare di fronte all'eventualità dell'aborto a cui vorrebbe ricorrere per liberarsi delle pastoie della gravidanza e di una nuova maternità.

Richard Yates

 Frank riuscirà a scongiurare la partenza per l'Europa, ma pagherà un prezzo altissimo per la sua ipocrisia: perderà l'amore di April, la quale, sentendosi in trappola, tenterà di procurarsi da sola quell'aborto per cui i termini previsti dalla legge sono ormai scaduti; l'emorragia conseguente al maldestro intervento su di sé le sarà fatale.
 Revolutionary Road, a mio parere, è il romanzo della vacuità: l'incapacità dei personaggi di comprendere se stessi e chi sta loro accanto, e l'inconsistenza delle motivazioni coscienti che determinano il loro agire e li inducono a prendere decisioni sbagliate è pari solo alla profondità della loro intima sofferenza. 
 Helen Givings - l'agente immobiliare vicina di casa di Frank e April - è tormentata dalla pazzia del figlio, ma il suo tormento si trasforma nell'ossessione per il decoro che la provocatoria mancanza di discrezione del folle John inevitabilmente compromette.
 Shep Campbell - che insieme alla moglie Milly costituisce l'unica coppia davvero amica dei Wheeler a Revolutionary Road - è contrariato dal proprio matrimonio sbagliato e dallo struggente desiderio per la sensuale April ma, credendo di compiere un atto d'amore nei confronti della donna, finisce per approfittarsi di lei acuendo il suo malessere.
 Frank pensa di amare sinceramente sua moglie, ma la tradisce, la tratta come una sciocca e si rivela totalmente incapace di mettersi nei suoi panni, tanto da diventare il principale responsabile della crisi che la condurrà alla morte.
 April stessa accarezza vagamente il sogno di una vita diversa e migliore, ma coltivando un'immagine stereotipata e sostanzialmente bugiarda di sé e del marito finisce per non riconoscersi più nel proprio modo di pensare e per cadere in balia delle proprie disperate emozioni. 
 In un impianto narrativo forse un po' troppo schematico, quello che il libro riesce a rappresentare magnificamente è la capacità del conformismo di rendere banale - e, in una certa misura, falso - anche l'anticonformismo che ad esso si contrappone (è forse il caso di ricordare che, quando il testo fu pubblicato per la prima volta in Italia per i tipi di Garzanti nel 1964, uscì con il titolo I non conformisti). 
 Anche stilisticamente il romanzo non è superlativo, eppure contiene alcune pagine a mio avviso fra le più belle della letteratura americana dal dopoguerra in avanti: i passi che riportano la descrizione del ritorno a casa di Frank dopo la morte di April e dei momenti di incantata incredulità che l'uomo sperimenta mentre riordina la propria abitazione vuota e in disordine sotto la guida della voce della moglie che sembra persistere negli ambienti in cui è stata viva fino a poche ore prima sono eccezionalmente efficaci e straordinariamente commoventi. 
 Basterebbero questi, da soli, a giustificare l'inserimento di Revolutionary Road nel novero delle opere di cui è giusto serbare la memoria.   

Voto: 7,5 

domenica 2 febbraio 2020

John M.Hull, "Il dono oscuro", Adelphi


 Il dono oscuro è una traduzione libera, e forse arbitrariamente romantica, del titolo originale del libro di John M.Hull, Notes on Blindness. 
 Il testo, in sé e per sé, si presenta come un "diario della cecità", tenuto dall'autore fra il 1983 e il 1986, quando la perdita della vista - avvenuta per Hull a 45 anni di età, nel 1980, a seguito di una lunga malattia agli occhi e di una serie di inefficaci interventi chirurgici - si era ormai palesata una condizione irreversibile. E tuttavia, per la straordinaria lucidità e precisione nella descrizione dell'esperienza quotidianamente vissuta, per la felicità della vena narrativa che lo percorre, per le riflessioni che innesca e per le questioni che pone, questo scritto va ben oltre il piano della pura testimonianza personale e diventa un viaggio oltre i confini del senso comune, problematico e affascinante in modo assai originale.
 Hull, australiano d'origine e inglese d'adozione, era professore universitario di teologia e scienze religiose a Birmingham, marito di una giovane donna e padre di due bambini (Imogen, nata nel 1973 dalla relazione con la prima moglie, e Thomas, nato nel 1980) quando la cecità gli piombò addosso; la seconda moglie Marilyn gli avrebbe dato in seguito altri tre figli. 
 Le sue osservazioni insistono via via sulle difficoltà concrete che egli incontra nella vita di tutti giorni (per esempio su come orientarsi per recarsi da solo al lavoro), sul rapporto con la moglie, con i figli e con gli amici, sulle modificazioni che subisce la sua percezione del mondo, sui sogni che lo visitano mentre dorme e sulla persistenza in essi di elementi vivacemente visivi, sull'evoluzione nel tempo della propria cecità, sul significato della propria condizione dal punto di vista pratico, affettivo, identitario, psicologico, antropologico, filosofico, religioso.
 Le sue riflessioni sono sempre acute e oneste. Da uomo attivo, Hull ci parla dei limiti della propria indipendenza, delle tecniche sviluppate per orientarsi quando si muove da solo nelle strade della propria città, dell'imbarazzo che provano alcune persone nell'avere a che fare con un cieco e della loro totale incapacità di capire quale tipo di aiuto possa servirgli e in quali circostanze: dell'incapacità, in sostanza, di mettersi nei suoi panni. 
 Da marito innamorato, si sofferma sui cambiamenti che subisce il proprio rapporto con la moglie, dal punto di vista della condivisione della quotidianità domestica, della coltivazione della complicità reciproca e della gestione della sessualità che, basandosi non più sulla vista ma sul tatto e sull'olfatto, diventa nello stesso tempo più tenera e più primitiva.
 Da padre amorevole, cerca di capire come reimpostare il proprio rapporto con i figli: si rende conto con grande rammarico di non poterne apprezzare il mutamento di aspetto durante la crescita, di non riuscire a sorvegliarli come vorrebbe, di non avere i mezzi per giocare sempre con loro come desidererebbero, e prova a inventarsi nuovi modi di interazione. Nel contempo si sforza di comprendere come essi percepiscono la sua cecità (si sorprende, ad esempio, quando il piccolo Tom gli rivela di avere capito come egli non possa "sorridere con lui", dimostrando così di cogliere alla perfezione la valenza sociale e affettiva di un sorriso) per sviluppare su questa base le virtù del suo ruolo paterno.

John M.Hull al tempo della stesura di Notes on Blindness

 Da accademico, studia e classifica le tappe successive del suo "viaggio" nella cecità e le loro implicazioni antropologiche, neurologiche ed estetiche: diventare ciechi è come addentrarsi in un tunnel senza uscita e senza ritorno; mano a mano che ci si allontana dall'ingresso, il concetto stesso della luce e della "visibilità" degli oggetti tende a sbiadire, finché è come se il tunnel curvasse, e a quel punto svanissero persino il ricordo dei volti delle persone e la memoria delle forme del paesaggio. 
 Solo nei sogni forme e colori si ripresentano in una veste particolarmente vivida. A poco a poco, il mondo del cieco si riplasma così sulla base di nuove immagini non più visive, ma uditive, olfattive e tattili. I parametri a tutti noti su cui si basa il senso comune perdono di senso, si sgretolano e lasciano il posto a criteri totalmente nuovi di definizione della realtà: per il cieco, ad esempio, una bella giornata non è una giornata di sole, bensì una giornata di vento o di pioggia, quando il mondo vibra e risuona, e l'esperienza del paesaggio si arricchisce di mille particolari altrimenti impercepibili. 
 Il risarcimento per lo smarrimento provato dal cieco verso ciò che un tempo gli era ben noto (uno smarrimento che talvolta può essere drammatico, come quello provato da John Hull durante la vacanza che lo vede tornare dopo anni di assenza nella natia Australia conosciuta solo da vedente) è infine una nuova capacità di "vedere" con tutto il proprio corpo, di entrare in contatto con il carattere fondamentale di ciò che è sensibile superando i limiti della propria disabilità.
 Da credente e da teologo, infine, Hull deve fare i conti con il senso religioso della propria cecità. Scartate le interpretazioni più rozze, retrive e oscurantiste, che vedono nella disabilità la punizione per qualche oscura colpa, l'autore rifiuta anche di accettare passivamente la propria condizione come l'esito della misteriosa volontà di Dio, o di una onnipotente e onniveggente Provvidenza. 
 Al contrario, con spirito positivamente scientifico, Hull riconosce semplicemente nella cecità la conseguenza di una serie di malanni, di trascuratezze e di errori medici che il caso ha voluto che si sommassero determinando per lui la perdita della vista: perché molto di ciò che avviene in questo mondo è determinato dal caso e non direttamente dalla volontà divina. Dio e la Provvidenza, piuttosto, sono riconoscibili in noi e nel modo in cui siamo chiamati a dare un senso alla nostra vita reagendo di fronte a ciò che la sorte ci apparecchia. 
 La conclusione è che in sé e per sé la cecità non è un dono, sebbene possa essere suggestiva l'idea di considerarla come tale; sta a noi, semmai, trasformarla in un dono, vale a dire volgerla nell'occasione di conoscere il mondo in un modo in cui altri non lo potranno mai comprendere, cogliendo alcuni dei suoi caratteri basilari.
 Il libro, oltre ad essere assai interessante per la peculiarità della sua scrittura, assume una valenza conoscitiva unica secondo la prospettiva di parecchie discipline diverse (come sottolinea Oliver Sacks nella prefazione all'edizione italiana): costituisce insomma un esempio perfetto di "realtà aumentata", capace di esporre pienamente ed efficacemente il lettore a un'esperienza altrimenti per lui inattingibile. Che, in fondo, è ciò in cui risiede il cuore pulsante stesso della letteratura.

Voto: 7