Si tratta di una delle operazioni letterarie più interessanti
messe in atto in Italia negli ultimi tempi.
Due cose giova innanzitutto ricordare di Edoardo Nesi: 1) è
uno dei pochissimi scrittori italiani capaci di descrivere la realtà
industriale del nostro paese; 2) riesce spesso a farlo attraverso opere
narrative assai affascinanti (in anni passati, con presupposti ideologici assai
diversi dai suoi, forse solo Paolo Volponi ha saputo raccontare il mondo
produttivo con una abilità affabulatoria e una raffinatezza superiori).
L’estate infinita si inserisce – con caratteristiche
peraltro originali – nel filone già presidiato dall’autore con opere come L’età dell’oro e Storia della mia gente: è la storia dello sviluppo complessivo delle
attività imprenditoriali nel distretto industriale di Prato (che non viene mai
nominata ma che risulta ben riconoscibile) nel decennio che va dal 1972 al 1982
(anni in cui l’Italia, nonostante tutti i suoi problemi, risultava sostenuta da
una crescita economica consistente) raccontata attraverso le vicende
individuali, tra loro collegate, di tre personaggi principali: Ivo Barrocciai,
produttore tessile animato da una passione fuori dal comune per il proprio
lavoro, e capace di concepire per la propria azienda progetti espansivi
ambiziosissimi, basati sull’ottimismo, su uno spirito quasi visionario e sulla
fede nella bellezza e nella qualità dei propri prodotti; Cesare Vezzosi detto
“il Bestia”, grande tennista dilettante, ma soprattutto costruttore edile
incaricato dal Barrocciai di realizzare il mega-capannone destinato a diventare
il simbolo stesso del suo successo e della sua visione della vita e del lavoro;
e Pasquale Citarella, modesto operaio al servizio del Vezzosi che, grazie alla
sua tenacia, alla sua costanza e alla sua umiltà, saprà elevarsi dal ruolo di
semplice imbianchino a quello di capocantiere, e avrà il merito di riuscire a
portare a termine, tra mille difficoltà, la costruzione del faraonico capannone
della Barrocciai Tessuti.
Intorno a loro, una folta schiera di personaggi secondari che
danno spessore sentimentale alle vite dei protagonisti: vale la pena citare
Ardengo Barrocciai, il padre di Ivo, fondatore nel dopoguerra della Barrocciai
Coperte, che donerà al figlio il benessere e la sicurezza necessari per
intraprendere poi una propria strada; Arianna, infelice moglie di Cesare
Vezzosi e da un certo momento in avanti amante del Barrocciai; Vittorio
Vezzosi, il figlio di Cesare, che da bambino diventerà uomo “nell’epoca di
maggior benessere che l’Italia abbia avuto”; Maria, Dino e Tonino, la moglie e
i figli di Citarella.
Quella che Nesi prova a costruire è una vera e propria
epopea, volta a rappresentare con toni entusiastici la massima tensione verso il
benessere materiale da cui la società italiana sia stata attraversata, una
volta lasciatasi alle spalle i problemi legati alla miseria propriamente detta,
al termine di quel lungo dopoguerra che trova compimento con la fine del periodo
del boom economico. Il carattere precipuo di tale epopea è l’esaltazione del
valore assolutamente preminente dell’etica del lavoro (quella per cui “si dorme
per anni 4-5 ore a notte” e “non c’è sabati né domeniche”), attraverso cui
prende corpo il sogno di una realtà in cui la ricchezza è veramente a portata
di mano per chiunque sappia conquistarsela con il sudore della fronte, lo
spirito di iniziativa e il coraggio di intrapresa.
L’impianto narrativo supporta questo schema ideologico di
fondo in maniera molto efficace, utilizzando sostanzialmente tre espedienti: in
primo luogo scandisce, anno dopo anno, la parallela progressione di Barrocciai,
Vezzosi e Citarella verso il successo; in secondo luogo conferisce a ciascuno
dei protagonisti un suo specifico profilo “eroico”, enfatizzato a più riprese
con un profluvio di aggettivi che sottolineano i loro meriti; infine, “normalizza”
e riporta a una dimensione quotidiana questi eroi dell’epica del lavoro
incrociando la descrizione delle magnifiche sorti e progressive delle loro
iniziative imprenditoriali con quella delle loro private disavventure e dei
loro umanissimi difetti (un’operazione resa ancora più convincente perché
nutrita dal sapiente utilizzo di una lingua caratterizzata da una corposa
concretezza).
Il risultato complessivo è di sicuro impatto, e la lettura
quanto mai piacevole, nonostante qualche svagatezza e imprecisione di troppo in
alcuni passaggi del libro, di cui il lettore attento può accorgersi (ad
esempio, si dice a un certo punto che uno dei crucci maggiori del vecchio Ardengo
Barrocciai, il padre di Ivo, è quello di non conoscere bene le lingue, ma poi,
in un altro passo, Citarella lo trova nel suo ufficio impegnato una disinvolta
conversazione telefonica in lingua straniera; o ancora, nella costruzione del
personaggio di Cesare Vezzosi e della sua storia si colgono a volte delle
piccole incoerenze, come se l’autore, durante la stesura del libro, fosse stato
talvolta indeciso su quale indirizzo definitivo dare alla sua vicenda).
Edoardo Nesi
Nella valutazione di questo romanzo si pongono però soprattutto
due questioni. La prima: è davvero realistica la descrizione dell’Italia degli
anni settanta e ottanta del Novecento come un Paese in cui tutti potevano
conquistare il benessere se avevano determinazione e voglia di lavorare? La
seconda: l’idea neoliberista secondo la quale solo l’atteggiamento e il costume
mentale dell’individualismo imprenditoriale (per cui si è costantemente protesi
a fare soldi e a spendere soldi, perché è questa la via maestra per essere
riconosciuti socialmente, per dirsi arrivati e per esprimere qualcosa di sé;
per cui, ancora, non vale la pena di pagare le tasse, perché pagando le tasse
si sottrae alla propria azienda liquidità da reinvestire così che porti
infallibilmente all’aumento del volume degli affari e, in seconda battuta,
anche alla creazione di nuovi posti di lavoro) sono garanzia di un benessere
diffuso e duraturo è supportata dalla teoria e dalla prassi economica?
Alla prima domanda non si può che rispondere che l’Italia
degli anni settanta e ottanta, afflitta da complessi problemi di ordine
socio-politico e socio-economico che è quasi superfluo ricordare, non costituiva
affatto per molti cittadini – forse per la maggior parte dei cittadini –
l’entusiasmante scenario di un’«estate infinita». Cionondimeno non si può
negare che vigeva allora un incrollabile ottimismo nei confronti
dell’indefettibile progresso che avrebbero conosciuto le condizioni generali
del benessere materiale: ricordo anch’io di aver sentito i miei nonni o qualche
vecchio zio pronunciare frasi come “adesso si sta meglio di come si stava ieri,
e in futuro si starà senz’altro meglio di come si sta adesso…”.
Il problema chiave è però quello posto dalla seconda domanda:
basta incoraggiare l’iniziativa individuale per garantire a tutti la
possibilità concreta di attingere alla ricchezza? Per lunghi tratti il romanzo
sembra suggerire che sia proprio così; capita però di imbattersi in passi in
cui il narratore è costretto ad ammettere che il nesso fra le due cose non è
così banale né meccanico. Mi viene in mente, ad esempio, la scena in cui un Pasquale
Citarella giustamente orgoglioso, una domenica, porta la moglie e i figli a
visitare il mega-capannone della Barrocciai Tessuti, nella cui edificazione
egli ha avuto una parte così importante; ebbene, in quell’occasione sua moglie
Maria arriva a chiedersi come la marea montante ed esaltante del benessere
abbia potuto con tanta facilità lambire tutti loro, che sono venuti dal niente.
Nonostante attribuisca i giusti meriti a suo marito e di
quelli come lui, Maria deve alla fine riconoscere che la felice condizione
toccata alla sua gente e, più in generale al suo Paese, in quell’epoca
specifica è dovuta anche a qualcosa di imponderabile, che ella esita un po’
prima di definire, semplicemente, “fortuna”. Una fortuna, prosegue nei suoi
pensieri Maria quasi in preda a un intimo invasamento profetico, che in futuro
potrebbe toccare ad altri Paesi e abbandonare l’Italia: tanto che alla mente
della donna arriva ad affacciarsi l’immagine spaventosa di quegli stessi
capannoni che mentre li guarda appaiono ferventi di attività, trasformati in
scatoloni vuoti, scrostati, silenziosi, con l’erba che cresce nei piazzali.
In questo modo, la logica per la quale il dilagare della
libera iniziativa individuale conduce sicurissimamente al benessere e
all’abbondanza universali finisce per traballare e per rischiare di rovesciarsi
completamente: forse piuttosto è nei periodi nei quali sono garantite le
condizioni ideali per la prosperità e l’abbondanza che l’iniziativa individuale
trova terreno fertile per affermarsi con ottime probabilità di successo, tanto
da diventare la più suggestiva, plastica rappresentazione esteriore della
prosperità e dell’abbondanza.
Una conclusione in realtà abbastanza ovvia per chi, come me,
credendo nel socialismo democratico, ritiene che si debba cercare di agire
politicamente per governare nella maniera più saggia possibile le diverse
variabili del sistema economico, creando una situazione favorevole allo
sviluppo anche dell’iniziativa individuale “a briglia sciolta” quando è
possibile, però sempre entro una cornice di regole giuste.
Alla fine, comunque, dato che Nesi è scrittore vero, giunge per via letteraria dove non arriva attraverso la teoresi: tanto è vero che il personaggio più riuscito dell'intero romanzo è quello certo meno esemplare è più aiutato dalla fortuna (almeno sul lavoro) nel suo cammino verso il successo: Cesare Vezzosi, l'indimenticabile "Bestia".
Voto: 8