domenica 8 novembre 2015

Bruno Galluccio, "La misura dello zero", Einaudi


 La poesia di Bruno Galluccio non è programmaticamente criptica; la sua difficoltà nasce piuttosto da un’attitudine descrittiva e mimetica, portata fino alle conseguenze estreme di una totale adesione alla morfologia complessa che caratterizza la materia (la materia fisica e quella estetica) per provare a restituire una versione razionalmente e sentimentalmente esplorabile di ciò che è.
 L’approccio alla realtà di questo poeta, tuttavia, non è di tipo tassonomico: ne fa fede il linguaggio, calibratissimo nel lessico ma quasi liquido nella sintassi, privo di segni di interpunzione, in cui la frase si snoda mobile e scivolosa come un serpente, come una macchia d’olio ondeggiante sul mare dei significati.
 Anche la tessitura metrico-prosodica trasmette una sensazione simile: praticamente non esiste uno schema ricorrente nella successione dei versi, e anche quando una serie di endecasillabi o settenari crea nel lettore l’attesa dell’adozione di un ritmo determinato, subito prende il sopravvento il verso libero a rimescolare le carte.
 Il risultato di tutto questo è un discorso lirico profondo e interessantissimo, ma privo della virtù della leggibilità, e che rischia quindi di invischiare un po’ il lettore nella propria collosa sostanza.  
 Tali pregi e tali difetti si notano bene in questa raccolta di 100 componimenti (alcuni invero notevoli) divisa in 5 parti: la prima, Misure, lascia emergere con chiarezza l’indole scientifica dell’autore e la sua tendenza a considerare l’universo come un libro scritto in lingua matematica (“l’universo non tace mai / e quello che fu detto tra noi si propaga / rimane una piccola frazione / della vibrazione di fondo degli spazi”).
 La seconda, Sfondi, trasfigura la dimensione tutta umana della memoria in un mondo apparentemente dominato dall’esattezza delle leggi fisiche (“il cielo è diventato alto aspro di stelle / così discendiamo nella nostra macchina / a separare le ore dai secoli”);.
 La terza, Matematici, tratteggia con finezza le figure di tre studiosi eminenti di epoche diverse – Pitagora, Evariste Galois e Kurt Gödel – che mostrano come la comprensione delle leggi che governano il mondo non sia uno schermo sufficiente a proteggerci dalle nostre debolezze e dai capricci della sorte (“indeterminato e indecidibile / fanno irruzione nel mondo / la giornata degli affari affonda / in una nebbia luccicante”).
 La quarta, Transizioni, rappresenta una articolata esemplificazione delle passioni umane e del dolore che pervade la nostra esperienza (“chi avverte il destino / si ferma alla prima curva di gelo / chiedendo spiegazioni e doni alla cecità”).
 L’ultima, Curvature, prova a interpretare il destino dell’uomo alla luce delle nostre conoscenze e di ciò che ignoriamo, e che resta un mistero (“solo rivedendo la forma / avremo spiragli sui possibili / per tutti i treni perduti / gli orari mai consultati”).

Bruno Galluccio ritratto da Francesco Ardizzone

 La più bella delle poesie contenute in questo libro? Per me, questa:

morire non è ricongiungersi all’infinito
è abbandonarlo dopo aver saggiato
questa idea potente

quando la specie umana sarà estinta
quell’insieme di sapere accumulato
in voli e smarrimenti
sarà disperso
e l’universo non potrà sapere
di essersi riassunto per un periodo limitato
in una sua minima frazione

Voto: 6,5

1 commento:

  1. sono grato per lo spazio dedicatomi, per l'analisi attenta e acuta e per gli apprezzamenti , un cordiale saluto !
    bruno galluccio

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