La poesia di Bruno Galluccio non
è programmaticamente criptica; la sua difficoltà nasce piuttosto da
un’attitudine descrittiva e mimetica, portata fino alle conseguenze estreme di
una totale adesione alla morfologia complessa che caratterizza la materia (la
materia fisica e quella estetica) per provare a restituire una versione razionalmente
e sentimentalmente esplorabile di ciò che è.
L’approccio alla realtà di questo
poeta, tuttavia, non è di tipo tassonomico: ne fa fede il linguaggio, calibratissimo
nel lessico ma quasi liquido nella sintassi, privo di segni di interpunzione,
in cui la frase si snoda mobile e scivolosa come un serpente, come una macchia
d’olio ondeggiante sul mare dei significati.
Anche la tessitura metrico-prosodica
trasmette una sensazione simile: praticamente non esiste uno schema ricorrente nella
successione dei versi, e anche quando una serie di endecasillabi o settenari
crea nel lettore l’attesa dell’adozione di un ritmo determinato, subito prende
il sopravvento il verso libero a rimescolare le carte.
Il risultato di tutto questo è un
discorso lirico profondo e interessantissimo, ma privo della virtù della
leggibilità, e che rischia quindi di invischiare un po’ il lettore nella
propria collosa sostanza.
Tali pregi e tali difetti si
notano bene in questa raccolta di 100 componimenti (alcuni invero notevoli)
divisa in 5 parti: la prima, Misure,
lascia emergere con chiarezza l’indole scientifica dell’autore e la sua
tendenza a considerare l’universo come un libro scritto in lingua matematica (“l’universo
non tace mai / e quello che fu detto tra noi si propaga / rimane una piccola
frazione / della vibrazione di fondo degli spazi”).
La seconda, Sfondi, trasfigura la dimensione tutta umana della memoria in un
mondo apparentemente dominato dall’esattezza delle leggi fisiche (“il cielo è
diventato alto aspro di stelle / così discendiamo nella nostra macchina / a
separare le ore dai secoli”);.
La terza, Matematici, tratteggia con finezza le figure di tre studiosi eminenti
di epoche diverse – Pitagora, Evariste Galois e Kurt Gödel – che mostrano come
la comprensione delle leggi che governano il mondo non sia uno schermo
sufficiente a proteggerci dalle nostre debolezze e dai capricci della sorte (“indeterminato
e indecidibile / fanno irruzione nel mondo / la giornata degli affari affonda /
in una nebbia luccicante”).
La quarta, Transizioni, rappresenta una articolata esemplificazione delle
passioni umane e del dolore che pervade la nostra esperienza (“chi avverte il
destino / si ferma alla prima curva di gelo / chiedendo spiegazioni e doni alla
cecità”).
L’ultima, Curvature, prova a interpretare il destino dell’uomo alla luce
delle nostre conoscenze e di ciò che ignoriamo, e che resta un mistero (“solo
rivedendo la forma / avremo spiragli sui possibili / per tutti i treni perduti
/ gli orari mai consultati”).
Bruno Galluccio ritratto da Francesco Ardizzone
La più bella delle poesie contenute
in questo libro? Per me, questa:
morire non è ricongiungersi all’infinito
è abbandonarlo dopo aver saggiato
questa idea potente
quando la specie umana sarà estinta
quell’insieme di sapere accumulato
in voli e smarrimenti
sarà disperso
e l’universo non potrà sapere
di essersi riassunto per un periodo limitato
in una sua minima frazione
in una sua minima frazione
Voto: 6,5
sono grato per lo spazio dedicatomi, per l'analisi attenta e acuta e per gli apprezzamenti , un cordiale saluto !
RispondiEliminabruno galluccio