L’ultima estate di Berlino nasce come testo teatrale col titolo Le Olimpiadi del 1936, prima di
diventare un romanzo. Si tratta della rivisitazione letteraria della storia
delle ultime settimane di vita di Wolfgang Fürstner, Capitano della Wehrmacht, veterano
pluridecorato della Prima guerra mondiale, responsabile della perfetta macchina
organizzativa delle Olimpiadi di Berlino del 1936.
Ma, nella distorta visione del
mondo dei nazisti, le capacità personali, l’efficienza e le benemerenze
acquisite servendo la patria nulla contavano al cospetto di una presunta
“purezza” razziale; così, quando Der
Judenkenner – un foglio di propaganda razzista tenuto in grande
considerazione dai gerarchi del Partito – rivelò che Fürstner aveva un nonno
ebreo, il Capitano venne rimosso dall’incarico proprio alla vigilia dell’evento
tanto atteso, pur restando all’interno del comitato organizzativo in posizione
subordinata.
Le Olimpiadi furono per la
Germania un grande successo da ogni punto di vista, anche per merito di chi
tanto si era speso affinché tutto funzionasse a meraviglia; ma Fürstner, forse
sconcertato dal vuoto che improvvisamente si era fatto intorno a lui, pochi
giorni dopo la fine dei Giochi si suicidò con un colpo di rivoltella.
Alfred Rosenberg, uno degli ideologi
del nazismo, così commentò la notizia sul proprio diario, sprofondando
involontariamente nel ridicolo: “Apprendo oggi 21 agosto del suicidio del
capitano Fürstner, responsabile dell’organizzazione del Villaggio olimpico. Si
era saputo da qualche tempo che aveva sangue ebraico. Ha ottemperato ai suoi
doveri fino all’ultimo giorno delle Olimpiadi, e poi è caduto vittima di un
esaurimento nervoso. Uno dei molti, tristi casi limite. Rispetto assoluto per
questo gesto di dignità, che gli proviene certamente dal suo lato germanico!”
Wolfgang Furstner
Il romanzo è narrato da un
duplice punto di vista: da una parte ci sono i sentimenti e i pensieri sempre
più cupi di Wolfgang Fürstner, che ragionando in prospettiva futura vede
chiudersi rapidamente l’orizzonte per se stesso e per la Germania intera; una
prospettiva tanto più dolorosa in quanto contemplata sullo sfondo della
bellezza dei Giochi Olimpici, della grandezza di molti dei personaggi che allo
spettacolo delle Olimpiadi del 1936 diedero vita, e dello sconfinato amore per
lo sport che nutre il Capitano.
D’altra parte ci sono le impressioni
di Dale Warren, giornalista americano al seguito della delegazione di atleti
spediti in Germania dal suo Paese – uno dei pochi personaggi del libro che non
siano storicamente documentati −, insieme ammirato dall’efficienza tedesca,
stupito dall’entusiasmo dei cittadini del Paese organizzatore, e infastidito
dall’eccesso di militarismo e di soldatesca disciplina che si percepisce a
Berlino.
Le parabole di Fürstner e Warren, in quella memorabile estate, incrociano tanti uomini e tante donne le cui
vicende meritano di essere raccontate. C’è, naturalmente, Jesse Owens (a
proposito del quale non si fa cenno al rifiuto del Führer di stringergli la mano,
un vero e proprio falso storico), che era trattato molto peggio negli Stati
Uniti della segregazione razziale di quanto lo fu sui campi di atletica dell’Olimpiade
tedesca.
C’è Carl Ludwig “Lutz” Long, che
a Berlino vinse la medaglia di bronzo nel salto in lungo e di Owens divenne
amico, dopo avergli consigliato durante la gara come correggere il suo stacco
per rendere il proprio salto più efficace.
C’è Leni Riefenstahl, la regista
di Hitler, donna dall’innato carisma, dal gelido magnetismo.
C’è Avery Brundage, capo della
spedizione americana nel 1936 e poi, nonostante il suo fervente filonazismo, a
lungo presidente del Comitato olimpico internazionale nel corso del dopoguerra.
C’è Eleanor Holm (in alcuni passi chiamata erroneamente Horn), campionessa
olimpica nel nuoto per gli Stati Uniti durante le Olimpiadi di Los Angeles del
1932, espulsa dalla squadra americana da Brundage durante la traversata dell’Atlantico
per il suo comportamento disinvoltamente anticonformista, divenuta
corrispondente per diverse testate giornalistiche durante le Olimpiadi di
Berlino, e in seguito stellina del cinema hollywoodiano e poi ricca ereditiera.
Federico Buffa
C’è Werner Seelenbinder, possente
campione tedesco di lotta greco-romana, fiero oppositore del regime in nome
della propria ideologia comunista, che sarà arrestato e decapitato in un
carcere nazista nel corso della Seconda guerra mondiale.
C’è Glenn Edgard Morris, fantastico campione
di decathlon che dopo le Olimpiadi recitò a Hollywood nel ruolo di Tarzan, a
fianco di Eleanor Holm nei panni di Jane.
Vi viene nominato persino James Naismith, l'inventore del basket, che a Berlino fu chiamato a consegnare le medaglie ai membri della squadra vincitrice del torneo.
Ci sono diversi esponenti delle forze
armate tedesche, dall’infame Ministro della guerra Werner Fritz von Blomberg al
barone Werner Albrecht von Gilsa, tipico esponente dell’aristocrazia militare
degli Juncker, che alla fine della Seconda guerra mondiale morì suicida dopo
aver consegnato la piazza di Dresda, di cui era comandante, nelle mani dei
Sovietici.
La storia più commovente è però
quella del coreano Sohn Kee-Chung, vincitore della Maratona di Berlino, dove fu
costretto a gareggiare sotto la bandiera degli invasori giapponesi, dai quali −
durante la cerimonia di premiazione − fece di tutto per manifestare la propria presa
di distanza con passività tutta orientale. In patria, i giornalisti che
sottolinearono le sue origine coreane furono duramente perseguitati. Nel 1988
fu l’ultimo tedoforo durante la cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Seul,
52 anni dopo il trionfo berlinese.
Il libro è sicuramente godibile; se un difetto va sottolineato è quello dell'eccessiva enfasi di determinati passaggi, che si traduce nella rappresentazione quasi caricaturale di talune scene e di taluni personaggi. Un difetto che gli deriva, con ogni probabilità, dalla superfetazione a seguito di un testo teatrale.
Voto: 6+
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