giovedì 11 agosto 2016

Paolo Rumiz, "Appia", Feltrinelli


 I libri di Paolo Rumiz riescono quasi sempre a conquistarmi immediatamente con la loro poesia.
 In questo caso, invece, mentre leggevo faticavo ad affezionarmi al testo perché avevo la sensazione che il racconto del viaggio di riscoperta della Regina viarum dei Romani - la prima grande arteria stradale del mondo antico - da parte del triestino e dei suoi compagni, pur ricco di suggestioni, fosse gravato dalla zavorra di troppi luoghi comuni; luoghi comuni sull'incapacità degli italiani di salvaguardare il proprio patrimonio culturale, sulla difficoltà di conciliare la modernità con il rispetto dell'antico, sulle stridenti contraddizioni che affliggono il nostro Meridione, sulla persistenza della stratificazioni storiche nelle differenze antropologiche riscontrabili fra le popolazioni della penisola italica.
 Poi ho capito che Appia non è solo un libro; è, prima di tutto, un manifesto, e come succede per i manifesti, il messaggio di cui si fa portatore trae forza dall'utilizzo dei luoghi comuni.
 Appia è un manifesto che dichiara la bellezza e la naturalezza del camminare, l'attualità della storia, e la necessità - per i singoli individui e per le comunità a cui essi danno vita - di mantenere intatto il legame con le proprie radici.
 Appia è una proposta: un invito a tutti i lettori a farsi carico del compito di rendere nuovamente percorribile dall'inizio alla fine la strada forse più importante della classicità, senza aspettare un intervento delle istituzioni.

Paolo Rumiz

 Voluta da Appio Claudio Cieco, realizzata tra la fine del IV e il III secolo a.C., in piena età repubblicana, capace di collegare Roma a Brindisi con un percorso perfettamente lineare, quasi rettilineo, l'Appia rappresentò di fatto per i Romani la porta verso l'Oriente.
 Fu innanzitutto strumento di dominio: consentì alle legioni di spostarsi velocemente verso il sud della Penisola evitando tortuosi sentieri, esposti agli agguati, entro i territori di popoli italici assoggettati ma mai del tutto domi.
 Condusse i soldati romani agli imbarchi verso est, aprendo loro la strada alla conquista nel mondo.
 Nello stesso tempo, però, aprì all'Oriente - alle merci e alle idee che da lì provenivano - la strada verso Roma: basti pensare che quella via percorsero Pietro e Paolo mentre si apprestavano a portare il Cristianesimo nel cuore dell'Impero.
 Lungo l'Appia vennero crocifissi Spartaco e gli schiavi ribelli che avevano osato sfidare l'autorità di Roma; lungo l'Appia venne trasportato verso la Capitale il cadavere di Ottaviano Augusto, morto a Nola nel 14; lungo l'Appia si facevano seppellire i ricchi romani, che speravano che il loro ricordo rimanesse vivo presso i viaggiatori.
 Mettendosi in cammino, Rumiz ha ben presente tutto questo, e ha presente soprattutto la lezione di Antonio Cederna, colui che maggiormente si batté per difendere il tratto della via più vicino a Roma dalla rapacità dei privati e dall'incuria dello Stato; non sa però che cosa lo attende lungo il percorso, né se sia rimasta davvero qualche testimonianza della strada in lunghi tratti del suo originario tracciato attraverso le Regioni del Sud.

Rumiz in cammino attraverso un campo di grano

 In questo senso, l'esperienza del viaggio raccontata nel libro è il resoconto di un'esplorazione e di un processo di apprendimento: Paolo Rumiz comprende a poco a poco come l'Appia possa trasformarsi in un campo di grano, nel giardino di una villa con piscina difesa da feroci molossi, in una fabbrica (a Taranto addirittura l'Ilva), in un'autorimessa o persino in una discarica; e tuttavia, per l'occhio attento, la razionalità del suo sviluppo, la sua linea resta qualcosa di chiaramente riconoscibile, di assolutamente reale, e di concreto, anche dove nulla è rimasto dell'antico basolato.
 Prende così consistenza l'idea di fare del percorso dell'Appia antica - di tutto il percorso, gli oltre 600 km che separano Roma da Brindisi - qualcosa di simile al Camino de Santiago o alla via Francigena: un nuovo Cammino italiano, privo però della zuccherosa astrattezza della spiritualità trasfigurata dal marketing in una moda; dotato invece di una fisionomia viva e vera, sia nei suoi aspetti laici sia nei suoi addentellati con la fede religiosa, e costruito su un numero di testimonianze archeologiche di cui i suoi omologhi sono del tutto privi.

Il simbolo per la "Strada ritrovata" studiato da Pietro Porro. Così lo descrive Paolo Rumiz: "L'imperiosa doppia A che segna la via numero uno del mondo antico.
Due linee prospetticamente convergenti come una strada
che punta all'orizzonte.
[...] cinque lettere in un fascio, come spighe".

 La cronaca del viaggio da cui nasce il libro, naturalmente, è anche molto altro: è la fatica del camminare, il cameratismo fra i compagni di avventura (quelli che accompagnano Rumiz dall'inizio alla fine e quelli occasionali, che fanno solo un tratto del percorso, come Giuseppe Cederna, Vinicio Capossela e i molti archeologi e archeologhe che dischiudono al viandante i segreti dell'Appia antica nei suoi diversi segmenti), la gioia della scoperta dei luoghi, la continua suggestione della mitologia, gli incontri inattesi, la possibilità di riconoscere il bello e il brutto dell'Italia vecchia e nuova, le giustificate critiche alle istituzioni e al popolo italiano, i pensieri che prendono forma mentre si va.
 Quello che più resta al lettore, però, è senz'altro il fascino di un sogno che si trasforma in progetto, e che c'è da augurarsi possa avere davvero seguito.

Voto: 6,5 

Nessun commento:

Posta un commento