sabato 16 dicembre 2017

Alessandro Leogrande, "La frontiera", Feltrinelli


 La recensione di questo testo vuole essere anche un piccolo omaggio alla memoria di Alessandro Leogrande, lo scrittore di origine tarantina prematuramente scomparso pochi giorni fa, che è stato fra i maggiori studiosi nel nostro Paese dei fenomeni migratori.
 La frontiera di cui si parla nel titolo è quella - indefinita, per certi versi labile, mobile, ma nello stesso tempo drammaticamente concreta - che attraversa le acque del Mediterraneo e separa l'Europa dal continente africano: quella frontiera che negli ultimi anni centinaia di migliaia di persone hanno attraversato, e molte di più hanno anelato ad attraversare senza riuscirci, venendo risucchiate indietro nei gorghi dei conflitti e delle difficoltà da cui scappavano o - peggio - in quelli degli abissi marini, divenuti per troppi una fredda tomba blu.
 Per raccontare la storia di tutti questi uomini, Leogrande utilizza un duplice approccio: da una parte mette a fuoco l'esperienza viva di alcuni di loro, che ha conosciuto personalmente e che gli hanno affidato le proprie confidenze, dall'altra si sofferma su alcuni momenti chiave dell'epopea migratoria che si prestano ad assumere un valore emblematico (come il naufragio del 3 ottobre 2013 davanti a Lampedusa, presso l'Isola dei Conigli, in cui morirono 366 persone; o il pogrom scatenato il 22 maggio 2012 a Patrasso dai militanti della formazione neonazista Alba Dorata contro gli immigrati rifugiatisi in una fabbrica dismessa nella zona del porto; o l'uccisione di Muhammad Shahzad Khan a Tor Pignattara da parte di un ragazzino del quartiere aizzato dal padre, il 18 settembre 2014).
 Ma l'autore non si ferma mai alle pure suggestioni narrative: ciò che si racconta viene verificato attraverso i documenti disponibili - oppure interpellando testimoni diretti -, e poi analizzato con attenzione per cercare di cogliere le cause profonde dei fenomeni presi in considerazione, per provare a spiegarli con assoluta onestà, senza tirate ideologiche, senza ipocrisie, senza nascondere la complessità dei problemi che le migrazioni pongono.
 Così si svelano i percorsi che i migranti seguono a seconda della loro provenienza, i meccanismi e le logiche che regolano il traffico di esseri umani attraverso i confini tra gli Stati, le complicità esistenti tra i trafficanti di uomini e le autorità di diversi Paesi africani, le trappole in cui i migranti possono cadere, rimanendo incagliati per anni in una delle tappe del loro viaggio, o precipitando in buchi neri di violenza che li perdono definitivamente, senza che si possa sapere più nulla di loro.
 E, naturalmente, si scandaglia anche la spregevole sottocultura del razzismo, che non di rado devono affrontare coloro che ce la fanno, i migranti che riescono con grande fatica a costruirsi una nuova esistenza in Europa: quell'ostilità preconcetta nei confronti del "diverso", diffusa anche alle nostre latitudini, che ha origine nel falso mito della "corruzione" della sanità del nostro stile di vita e delle nostre tradizioni causato dall'arrivo degli stranieri, e che viene alimentata dall'indifferenza di fronte al dolore degli altri, dall'incapacità di mettersi nei loro panni, dall'automatismo per cui si è portati a scaricare su chi è più debole la colpa di problemi dalla genesi complessa, a cui magari non è estranea la nostra personale responsabilità; un'ostilità che, a ben vedere, ha a che fare solo indirettamente con i disagi e i problemi concreti che un massiccio afflusso di migranti può creare.
 Leogrande parla degli eritrei (come Gabriel Tzeggai o Syoum), in fuga da questa ex colonia italiana in cui il Fronte popolare di liberazione eritreo di Isaias Afewerki si è trasformato da movimento indipendentista e libertario in regime repressivo (in molti casi perpetuando i metodi autoritari degli antichi dominatori italiani) che, con la scusa del conflitto permanente con la vicina Etiopia, ha militarizzato totalmente la società, creando istituti odiosi come il servizio di leva permanente.
 Parla del Sinai, dove bande di predoni tengono prigionieri nel deserto i migranti che intercettano lungo le rotte dei loro spostamenti, e li rilasciano solo dopo aver ottenuto dalle famiglie di origine il pagamento di cifre altissime per il loro riscatto, sotto la minaccia di infliggere ad essi terribili torture.
 Parla delle prigioni libiche in cui, dopo l'inizio della guerra civile, i migranti sono spesso trattenuti in condizioni disumane, seviziati o prelevati solo per essere utilizzati come supporto a pericolosissime azioni belliche da parte di una delle fazioni in lotta: consegna di rifornimenti e munizioni ai soldati in prima linea sotto le bombe, operazioni di sminamento a mani nude (sovente fatte eseguire anche da minori) di porzioni del fronte strappate al nemico.
     
 Alessandro Leogrande

 Parla delle carrette del mare stipate all'inverosimile di passeggeri, e dirette verso le coste italiane sotto la guida di scafisti che spesso non sono altro che poveri pescatori, bassa manovalanza impiegata per i compiti più rischiosi da organizzazioni criminali totalmente prive di scrupoli, i cui capi mai si esporrebbero ai pericoli della traversata.
 Parla dei siriani - spesso famiglie borghesi, e non di poveri contadini come avviene per i migranti di altre etnie, abituate a un tenore di vita "occidentale" -, o dei curdi irakeni (come Shorsh), in fuga dalla guerra totale che ha inghiottito il loro Paese utilizzando le rotte che solcano la parte est del Mediterraneo.
 Parla degli afgani, che arrivano in Grecia attraverso l'Iran e la Turchia, per poi puntare verso il nord Europa via terra percorrendo la "rotta dei Balcani" fino all'Ungheria (come Aamir), oppure attraversando il mar Adriatico pericolosamente appesi sotto i camion che vengono imbarcati sui traghetti che partono da Patrasso e arrivano ad Ancona.
 La frontiera ci costringe a interrogarci sull'efficacia, sulla congruità e sulla moralità delle risposte istituzionali di fronte ai fenomeni migratori e del nostro atteggiamento al cospetto dei migranti: mette in luce le virtù e i limiti di Mare Nostrum, di Triton, di Frontex, le operazioni che, a livello italiano ed europeo, si sono succedute con lo scopo di scongiurare i naufragi nel Mediterraneo dei natanti utilizzati dai migranti, o, più modestamente e più egoisticamente, di contenere il numero di sbarchi sulle nostre coste.
 Una delle questioni più scottanti che questo libro porta a considerare - anche se paradossalmente riguarda decisioni prese in gran parte dopo la sua pubblicazione - è quella delle implicazioni che il cosiddetto "Protocollo Minniti", con l'impiego della Guardia costiera e delle milizie libiche per trattenere i migranti al di là del Mediterraneo, comporta a diversi livelli per la strategia di gestione dell'immigrazione.
 Sapendo cosa significa per i migranti, nella maggior parte dei casi, la permanenza nelle prigioni e nei campi di detenzione libici, è tollerabile sfruttare queste strutture per bloccare i profughi che tentano di imbarcarsi verso l'Italia? Posto che l'immigrazione va necessariamente regolata, non sarebbe forse meno ipocrita - e magari anche meno costoso - creare campi di raccolta direttamente sul nostro territorio, sotto la sorveglianza delle nostre forze dell'ordine e il monitoraggio delle organizzazioni umanitarie? Forse che i campi di raccolta risultano tollerabili alla sensibilità dell'opinione pubblica solo se sorgono lontani dai nostri occhi, anche se sono voluti e finanziati direttamente da noi? La presenza di simili strutture sul suolo europeo non porrebbe con maggiore forza il problema della  necessità della distribuzione dei migranti fra i diversi Paesi dell'Unione?
 I dubbi sollevati sono molto seri; anche perché, in fondo, la lezione principale che viene dal libro di Alessandro Leogrande è che la questione epocale delle migrazioni non si può eliminare pretendendo di mettere a punto una soluzione ideale capace di annullare in un colpo solo tutte le difficoltà che il fenomeno comporta (anche se affrontare il problema alla radice, cioè intervenire direttamente sugli Stati da quali il flusso di migranti ha origine aiuterebbe; ma è un approccio che i Paesi europei sono restii ad adottare, in primo luogo perché sarebbe molto complicato e darebbe risultati apprezzabili solo nel medio termine, in secondo luogo perché i nostri Governi hanno in quelle aree precisi interessi geopolitico-strategici che temono di compromettere...).
 Piuttosto si deve procedere via via con soluzioni di compromesso, scegliendo, di volta in volta, ove non è possibile ottenere il risultato migliore in assoluto, quello che costituisce il male minore. Nel far questo, però, è essenziale lasciarsi sempre guidare dai principi più alti che la nostra cultura ha saputo generare: la solidarietà, l'uguaglianza, il rispetto dell'integrità e dei diritti della persona umana.

Voto: 7

Nessun commento:

Posta un commento