lunedì 30 novembre 2015

Silvia Bre, "La fine di quest'arte", Einaudi


 Il titolo di questa piccola raccolta di poesie di Silvia Bre già di per sé dice molto, da una parte, sul tenore del libro, dall'altra sullo stile e sulla poetica della sua autrice. Si tratta infatti di un titolo polisemico: “la fine” sta ad indicare senza dubbio il termine, la conclusione, ma nello stesso tempo rimanda al fine, vale a dire a uno scopo determinato; nel contempo, l’arte che viene nominata designa in primo luogo la poesia ma, più in generale, chiama in causa “l’arte del vivere”, ovvero la vita stessa. La fine di quest’arte può dunque intendersi come la fine e insieme il fine della poesia, o come la fine e contemporaneamente il fine della vita umana.
 L’ambiguità o, per meglio dire, l’intercambiabilità di questi termini proietta una sorta di luce stroboscopica su tutti e 40 i componimenti presentati: la fine della vita, la morte, incombe ineludibile su ogni nostro agire; e la poesia, metafora di tutto ciò che tenta di essere comprensione e conservazione del mistero del vivere, diviene occasione per costeggiare e corteggiare la morte, magari per scoprire che solo così si può mettere davvero in rilievo, in negativo, l’essenza della vita (“chi lo direbbe che a disegnarci vivi / basta un’ombra”).
 Così, se il tema della morte sembra prendere talvolta prepotentemente il sopravvento offrendo lo spunto per coltivare fantasie quasi suicide (“Ti sto davanti forse / presto / stringimi / due lacci intorno al collo”), mentre altre volte la magia del reale esaltata dalla poesia tende a cancellare ogni pensiero cupo (“panorama montano, un mare di reale / non si distingue nuvola da neve e gioia / dei loro nomi capitati insieme”), le due spinte contrastanti riescono a trovare un equilibrio laddove ci si rende conto che è la presenza stessa dell’uomo a donare alle cose il loro statuto di realtà (“Se il nostro luogo è dove / il silenzioso guardarsi delle cose / ha bisogno di noi / dire non è sapere, è l’altra via, / tutta fatale, d’essere”).

 Silvia Bre

 In questo modo, quella che sembra di primo acchito una poesia improntata a un neotradizionalismo raffinato, dotato di notevole compostezza ma di scarsa originalità (tanto nelle scelte lessicali quanto in quelle metriche), si arricchisce di scatti e scarti, che ne illuminano e ne scaldano le nitide arcate intellettuali, specie nel momento in cui l’io poetante si arrende di fronte all’impotenza del proprio sforzo di venire a capo del problema angoscioso della fine (“Questo poema è senza più ragione / sta alla vita come le sta uno sguardo / che nel vedere intende essere là // io mi sospendo e mi sostengo in questo / stare nel nome di”).
 Un sentimento che pervade anche la lirica finale, quella dedicata a Francesco Borromini e alla sua architettura, la più lunga di tutta la raccolta; quasi che le ardite invenzioni di pietra dell’artista fossero la traduzione materiale della tensione emotiva che anima questi versi; quasi che dall’opera dell’architetto ticinese Silvia Bre avesse tratto segreta ispirazione.
 La poesia più bella? Forse questa:

Anima, come ti fuma il tempo
tutta rapita dentro
una miseria più grande della mia

a tanto si riduce l’infinito

tu sapevi distinguere
i significati
ora servi a versare
questa verità nel nulla

e io sono il tuo cane che t'insegue. 

Voto: 6

domenica 22 novembre 2015

Gian Paolo Ormezzano, "I cantaglorie. Una storia calda e ribalda della stampa sportiva", 66th a2nd


 Piemontese, classe 1935, già direttore di Tuttosport, Gian Paolo Ormezzano è uno dei grandi vecchi del giornalismo sportivo italiano.
 Il suo ultimo libro rappresenta un tentativo di tracciare l’evoluzione dal secondo dopoguerra in avanti della professione che egli ha esercitato per più di 60 anni, e di mettere a fuoco i personaggi che più le hanno dato lustro.
 Il libro è interessante e a tratti anche appassionante, e si giova di una prosa molto efficace, precisa, fluida e piena di accenti personali (che scade solo quando Ormezzano – come talvolta gli capita – cerca di essere brillante a tutti i costi, e gigioneggia un po’); più perplesso mi lasciano i presupposti francamente antimodernisti da cui parte l’autore, convinto che l’avvento della televisione prima e di internet poi abbia completamente rovinato il giornalismo sportivo e, probabilmente, anche lo sport stesso (che un tempo − si lascia intendere – era sublimato dal suo racconto scritto, che più che l’appendice costituiva il compimento dell’evento sportivo, vissuto dagli appassionati innanzitutto proprio attraverso la lettura dei giornali).
 Il criterio seguito da Ormezzano per individuare le linee di sviluppo della stampa sportiva tiene dunque conto di questi presupposti, ed è basato sul progressivo mutamento dell’approccio da parte dei giornalisti alla materia da essi trattata.
 Si parte così da una prima fase, in cui i giornalisti amavano lo sport più di quanto lo conoscessero, e tendevano a raccontarne gli eventi con slanci lirici e fantastici più che sulla scorta di nozioni tecniche e della puntuale verifica dei dati di realtà; i protagonisti di questa fase erano dei veri e propri cantori, e quest’epoca si può appunto definire “epoca dell’amore”. Fra gli sport, protagonista assoluto fu il ciclismo, assai più popolare del calcio; non a caso, se si vuole individuare una data simbolica in cui questo periodo ha termine, si può prendere come punto di riferimento la morte di Fausto Coppi, il 2 gennaio 1960 (evento che vide casualmente Ormezzano, allora giovane inviato, al capezzale del Campionissimo).
 La seconda fase è quella che Ormezzano chiama “dell’erotismo”: i giornalisti continuano ad amare la propria professione e lo sport in generale, ma quest’ultimo diviene per loro soprattutto oggetto di studio, di attenta e a volte sottilissima analisi, di approfondimento in senso lato “culturale”; la stampa sportiva è chiamata a spiegare e a enfatizzare l’evento più che a provvedere a una sua mera descrizione a beneficio del lettore, e la sua funzione finisce per essere quella di un moltiplicatore della passione di tifosi e spettatori, che spesso già hanno potuto assistere alla competizione sportiva trattata negli articoli della stampa specializzata attraverso lo schermo del televisore. La data di passaggio da questa fase alla successiva si può forse fissare in corrispondenza della vittoria italiana ai Campionati del mondo di calcio nel 1982.
 La terza e ultima fase è quella definita “della pornografia” (senza dare necessariamente al termine pornografia una connotazione del tutto negativa, precisa Ormezzano, quasi che i giornalisti sportivi contemporanei fossero obbligati a ripiegare su questo approccio allo sport; ma non riesce a essere convincente fino in fondo). Qui i giornalisti sportivi si vedono trasformati in garanti della metamorfosi dell’evento sportivo in puro show.

Gian Paolo Ormezzano

 I retroscena e i relativi pettegolezzi, perciò, diventano importanti quanto la performance sportiva in sé; il gesto atletico viene visionato un’infinità di volte e praticamente “sezionato”, scomposto fotogramma per fotogramma ed esaminato in tutti i suoi particolari a beneficio degli spettatori; all’evento sportivo puro e semplice si sovrappone una serie di elementi (dai tifosi che fanno da cornice alla gara e finiscono per essere parte dello spettacolo, alle scommesse con cui l’appassionato si illude di conquistare una parte “attiva” nella dialettica agonistica…) volti a creare una sorta di “realtà aumentata”, che però tende in qualche modo a snaturare e a meccanizzare la percezione di quella che una volta era definita “realtà effettuale”.
 La “fase della pornografia” dura tuttora, e ha come numi tutelari una televisione il cui potere è cresciuto a dismisura e la sempre più invadente presenza dei multiformi contenuti veicolati dalla rete internet.
 I punti di riferimento cronologici che separano una fase dall’altra sono in realtà molto approssimativi, tanto da saltare spesso quando si tratta di riferire un protagonista a un periodo piuttosto che all’altro, all’interno della lunga galleria di ritratti con cui Ormezzano tratteggia il ricordo dei più grandi giornalisti sportivi dal dopoguerra in avanti. È questa, a mio parere, la parte di gran lunga più godibile e meglio riuscita del libro.
 Ad esempio, tra i “cantori” della fase amorosa viene annoverato un giornalista contemporaneo come Gianni Mura, mentre lo storico telecronista Rai delle gare ciclistiche Adriano De Zan viene inserito tra i “pornografi” (mentre forse entrambi starebbero meglio tra gli “erotisti”, per adottare il criterio di Ormezzano).
 Fra i ritratti più belli bisogna citare quello di Vittorio Pozzo (che, oltre a essere il commissario tecnico della nazionale italiana di calcio vincitrice per due volte di fila del Campionato del Mondo nel 1934 e nel 1938, fu a lungo uno stimato giornalista), impreziosito da alcuni personali ricordi dell’autore; quello di Carlin Bergoglio, torinese riservato, avarissimo, “onesto sino allo spasimo, al masochismo”, capace di tenere testa senza timore reverenziale agli Agnelli da direttore di Tuttosport e di cantare meglio di tutti le gesta di Coppi, nonostante tifasse per Bartali; quello di Gianni Brera, che ha soprattutto il pregio di non essere banalmente agiografico come quasi sempre sono i ritratti di Brera; quello di Gianni Minà, “l’italiano più conosciuto nel mondo da quasi mezzo secolo”, “classico esempio di talento disperso, sparpagliato” e “di simpatia espansa, a costo di sorridere anche ai fetenti”.
 E ancora, quello di Sergio Zavoli, quelli degli indimenticabili Ciotti e Ameri, quelli – per molti versi commoventi – di Maurizio Mosca (con Aldo Biscardi il re dei “pornografi”) e di Candido Cannavò, quello di Gianni Clerici e Rino Tommasi (trattati insieme e anch’essi coerentemente classificati tra i “pornografi”, seppur di un tipo del tutto diverso da quello di Biscardi e Mosca).
 Vi sono anche notevoli assenze, naturalmente; ma non potrebbe essere diversamente.
 Alla fine resta da chiedersi: in quale categoria Ormezzano porrebbe se stesso?
 Al lettore il compito di provare a darsi una risposta.

Voto: 6,5

domenica 15 novembre 2015

Angelo Mellone, "Nessuna croce manca", Baldini e Castoldi


 Il titolo ungarettiano è molto bello, e viene astutamente utilizzato per caricare di drammatica e dolente suggestione la parabola della destra italiana negli ultimi 25-30 anni. Il libro rappresenta infatti uno scoperto tentativo di dare dignità letteraria alla storia recente del neofascismo e del postfascismo nel nostro Paese.
 La vicenda raccontata da Angelo Mellone (palestratissimo giornalista della Rai Tv) vede come protagonisti quattro ragazzi di Taranto – Claudio, Dindo, Chiodo e Valeria detta Gorgo –, che nella seconda metà degli anni ottanta, grazie all’influenza del padre di Gorgo, “il Professore”, storico militante della destra sociale che ha abbandonato l’Msi in polemica con i vecchi camerati, cominciano a gravitare in quell’area politica e decidono di iscriversi all’organizzazione giovanile missina “Fare fronte”.
 Claudio e Chiodo sono di famiglia operaia, Dindo e Gorgo di origine borghese, ma tutti sentono un’identica voglia di ribellismo e tutti nutrono il medesimo bisogno di essere diversi e radicalmente “contro”: gli ambienti che frequentano e la loro formazione culturale, sullo sfondo della città del Siderurgico e del mare inquinato, determinano il tenore di quel ribellismo e il colore di quella diversità. Così, la militanza nelle file degli ultras del Taranto calcio insegna loro ad essere protervi; la lettura dei testi di Julius Evola modella l’immagine delle persone che vorrebbero diventare.
 Le circostanze imprimeranno in realtà curvature molto diverse a quelle che i quattro ragazzi immaginano come vite parallele: nell’estate dei suoi sedici anni, quella del 1989, Gorgo verrà messa incinta dal chitarrista di un gruppo rock, e non potrà partecipare, pochi mesi più tardi, al tentativo dei suoi tre amici, a bordo di una scassatissima autovettura, di raggiungere Berlino per celebrare la caduta del Muro e festeggiare la fine del comunismo.
 Claudio, Dindo e Chiodo saranno bloccati da un guasto al motore poco prima di Pescara, ma questo non impedirà loro di arrivare molto più lontano nella vita: seguendo le diverse trasformazioni subite dal Msi sotto la guida di Gianfranco Fini, Claudio diventerà addirittura un deputato della Repubblica; Dindo − forse il personaggio che più da vicino ricorda l’autore del libro −, assai più radicale dell’amico (con cui finirà per rompere) nelle sue prese di posizione, e più critico nei confronti di quelli che considera i traditori dell’eredità missina, farà carriera accademica, fino ad essere un giovane, stimatissimo professore di linguistica alla Sapienza di Roma, e un apprezzato commentatore televisivo; Chiodo, trasferitosi anch’egli nella capitale, smetterà di fare l’operaio per diventare tatuatore – uno dei più ricercati e “alla moda” sulla piazza.
 Tutti questi successi, però, non possono cancellare la profonda nostalgia per i loro antichi trascorsi, il loro ardore giovanile, la loro grande amicizia e il loro sodalizio ideologico. Soprattutto, ripensando al gruppo che furono, pesa nei tre giovani la mancanza di Gorgo, sparita quasi senza lasciare traccia; e in particolare è Dindo, che era segretamente innamorato di lei (e segretamente ricambiato), a serbarne il ricordo dentro di sé.

Angelo Mellone

 La ricomparsa di Valeria – ma sarebbe forse meglio dire del suo fantasma – sarà quanto mai rocambolesca: la figlia concepita in giovanissima età, Chiara, diventata ormai una ragazza di ventidue anni, venuta a conoscenza dello sfortunato amore adolescenziale della madre, si presenterà ai corsi universitari di Dindo appositamente per sedurre il professore, e per vivere con lui la storia che sua madre non ha trovato il coraggio di cominciare.
 Rimasta a sua volta incinta, Chiara deciderà di abortire (come Gorgo non aveva avuto il coraggio di fare); non prima, però, di aver propiziato, con l’aiuto di Chiodo, una reunion della madre e dei suoi tre vecchi amici, affinché Chiodo, Claudio e Dindo (finalmente rappacificatisi) possano compiere, nel 2012 e questa volta anche in compagnia di Gorgo, il viaggio verso Berlino interrotto nel 1989.
Il cerchio della storia si chiude così col ritorno al punto in cui tutto era cominciato; ma questa volta, sullo sfondo, non c’è il crepuscolo del comunismo, bensì quello del berlusconismo.
 Il romanzo, piuttosto intrigante nella prima parte, si spappola nell’inverosimiglianza di un finale da feuilleton, dettato da un lato dall’ansia di sancire simbolicamente il compimento di un percorso, dall’altro dal tentativo di trasfigurare in termini sentimentali una traiettoria umana e politica che altrimenti potrebbe apparire abbastanza mediocre.
 In più, se uno degli scopi del libro vorrebbe essere quello di dare presentabilità culturale all’ideologia figlia del fascismo, e affermare la positività dell’apporto della sua influenza sull’Italia contemporanea, c’è da registrare l’assenza ingiustificata di una riflessione vera sulle idee che di quella ideologia sono alla base, e sulla loro traduzione politica nella temperie della contemporaneità. Tutt’al più ci si accontenta di citazioni generiche degli autori di riferimento del fascismo “classico” e del neofascismo, da Robert Brasillach a Drieu la Rochelle, da Julius Evola a Ernst Jünger.
 Nulla, insomma, che possa indurre chi la pensa esattamente come gli estimatori degli autori sopra elencati o – tantomeno – chi la pensa in maniera diversa a mettersi in gioco con tutta la propria visione del mondo, aprendosi a un confronto serio con “l’altro”.
 In definitiva, la cifra caratteristica di quest'opera narrativa rimane quella dell'onanismo identitario.

Voto: 5

domenica 8 novembre 2015

Bruno Galluccio, "La misura dello zero", Einaudi


 La poesia di Bruno Galluccio non è programmaticamente criptica; la sua difficoltà nasce piuttosto da un’attitudine descrittiva e mimetica, portata fino alle conseguenze estreme di una totale adesione alla morfologia complessa che caratterizza la materia (la materia fisica e quella estetica) per provare a restituire una versione razionalmente e sentimentalmente esplorabile di ciò che è.
 L’approccio alla realtà di questo poeta, tuttavia, non è di tipo tassonomico: ne fa fede il linguaggio, calibratissimo nel lessico ma quasi liquido nella sintassi, privo di segni di interpunzione, in cui la frase si snoda mobile e scivolosa come un serpente, come una macchia d’olio ondeggiante sul mare dei significati.
 Anche la tessitura metrico-prosodica trasmette una sensazione simile: praticamente non esiste uno schema ricorrente nella successione dei versi, e anche quando una serie di endecasillabi o settenari crea nel lettore l’attesa dell’adozione di un ritmo determinato, subito prende il sopravvento il verso libero a rimescolare le carte.
 Il risultato di tutto questo è un discorso lirico profondo e interessantissimo, ma privo della virtù della leggibilità, e che rischia quindi di invischiare un po’ il lettore nella propria collosa sostanza.  
 Tali pregi e tali difetti si notano bene in questa raccolta di 100 componimenti (alcuni invero notevoli) divisa in 5 parti: la prima, Misure, lascia emergere con chiarezza l’indole scientifica dell’autore e la sua tendenza a considerare l’universo come un libro scritto in lingua matematica (“l’universo non tace mai / e quello che fu detto tra noi si propaga / rimane una piccola frazione / della vibrazione di fondo degli spazi”).
 La seconda, Sfondi, trasfigura la dimensione tutta umana della memoria in un mondo apparentemente dominato dall’esattezza delle leggi fisiche (“il cielo è diventato alto aspro di stelle / così discendiamo nella nostra macchina / a separare le ore dai secoli”);.
 La terza, Matematici, tratteggia con finezza le figure di tre studiosi eminenti di epoche diverse – Pitagora, Evariste Galois e Kurt Gödel – che mostrano come la comprensione delle leggi che governano il mondo non sia uno schermo sufficiente a proteggerci dalle nostre debolezze e dai capricci della sorte (“indeterminato e indecidibile / fanno irruzione nel mondo / la giornata degli affari affonda / in una nebbia luccicante”).
 La quarta, Transizioni, rappresenta una articolata esemplificazione delle passioni umane e del dolore che pervade la nostra esperienza (“chi avverte il destino / si ferma alla prima curva di gelo / chiedendo spiegazioni e doni alla cecità”).
 L’ultima, Curvature, prova a interpretare il destino dell’uomo alla luce delle nostre conoscenze e di ciò che ignoriamo, e che resta un mistero (“solo rivedendo la forma / avremo spiragli sui possibili / per tutti i treni perduti / gli orari mai consultati”).

Bruno Galluccio ritratto da Francesco Ardizzone

 La più bella delle poesie contenute in questo libro? Per me, questa:

morire non è ricongiungersi all’infinito
è abbandonarlo dopo aver saggiato
questa idea potente

quando la specie umana sarà estinta
quell’insieme di sapere accumulato
in voli e smarrimenti
sarà disperso
e l’universo non potrà sapere
di essersi riassunto per un periodo limitato
in una sua minima frazione

Voto: 6,5

domenica 1 novembre 2015

Gianni Clerici, "Quello del tennis. Storia della mia vita e di uomini più noti di me", Mondadori


 Gianni Clerici è indubbiamente uno che se la tira (nonostante la sua capacità di sfoggiare a tratti una certa autoironia); la sua consapevolezza di appartenere a un’elite, per via del denaro, della cultura, dello stile di vita o delle ascendenze familiari, è per lui continuamente motivo di orgoglio, talvolta venato anche da un fastidioso classismo. E tuttavia se la tira con tale candore – come se avesse un intimo bisogno di esibire le sue qualità, i suoi meriti, i suoi successi, le sue frequentazioni, per avere conferma del proprio valore – che non gli si può volere male.
 Le leziosaggini del suo stile brillante, raffinato, oltranzisticamente digressivo, gustosamente citazionista paiono il riflesso linguistico di un modo di essere, che ha come aspetti principali la curiosità per le situazioni e i personaggi più originali, una spiccata sensibilità per l’eleganza, una naturale propensione al pettegolezzo e alla socialità che rendono i suoi testi sempre molto divertenti.  Potremmo definire Gianni Clerici una sorta di divagante flâneur della pagina scritta.
 Questa “bio-eterografia” (per usare la definizione dell’autore) sembra fatta apposta per esaltare tali caratteristiche: ripercorrendo la sua esistenza (a partire, prima ancora che dalla sua infanzia, dalle famiglie d’origine dei suoi genitori, entrambi altoborghesi ed entrambi comaschi), Clerici si sofferma spesso a lungo sulle figure degli amici più cari, sui personaggi e sui libri che più hanno contato nella sua formazione, sulle situazioni memorabili in cui si è trovato per avventura coinvolto, e ogni cosa diventa fonte di nuovi aneddoti che si legano l’uno all’altro portando sovente il lettore lontano dall’asse principale della narrazione.
 L’amore per il tennis, che ha informato di sé tutta la vita di Clerici, nacque all’Hanbury Tennis Club di Alassio, dove il piccolo Gianni soggiornava con la madre durante le lunghe trasferte del padre nell’Africa coloniale (per il suo redditizio commercio di idrocarburi), alternando le lezioni di francese dell’esule baronessa russa Korff agli allenamenti con la racchetta sotto l’occhiuta supervisione del severo Mister Sweet.
 La guerra passò senza particolari danni per la famiglia Clerici (le aziende in Africa erano state liquidate giusto in tempo); l’ultima fase del conflitto vide addirittura il padre attivo nelle file dell’antifascismo, e allo stesso Gianni, appena quattordicenne, capitò di trasportare nella custodia delle sue racchette da tennis le armi destinate ai partigiani che presidiavano la zona del Lago.
 Nel dopoguerra Gianni si trasformò in una autentica promessa del tennis italiano, fino alla partecipazione, nel 1953, al torneo di Wimbledon, nel quale fu peraltro eliminato al primo turno. Quando un insidioso virus mise precocemente fine alla sua carriera sportiva, Gianni si dedicò con la massima determinazione alla carriera giornalistica, che lo vide dapprima collaboratore della Gazzetta dello Sport e poi, a lungo, inviato del Giorno, sempre sotto l’ala protettrice del grande maestro e amico Gianni Brera.

Gianni Clerici

 Clerici, però, ha sempre rifiutato di definirsi un reporter o un cronista; la professione di giornalista, esercitata con il piglio e la libertà che gli consentivano le cospicue sostanze di famiglia è sempre stata da lui interpretata come un esercizio affine a quello dello scrittore, o se si preferisce del cantastorie. Questo gli ha permesso di forgiare per i suoi articoli (e per le indimenticabili telecronache in coppia con Rino Tommasi) un inconfondibile stile.
 Con l’andare degli anni, grazie, alla pratica diretta dello sport e allo studio assiduo, è diventato uno dei massimi esperti di tennis al mondo, consacrato come tale pochi anni fa dall’ammissione, da parte del Newport Tennis Club, alla Hall of Fame del tennis.
 Tutti questi fatti, però, rappresentano solo l’impalcatura del racconto. A contare molto di più, come detto, sono le digressioni, che possono riguardare figure come quelle di Gianni Brera, Ottavio Missoni, Nicola Pietrangeli, Ernest Hemingway o Hermann Hesse; luoghi, come le case abitate da Clerici in angoli diversi del mondo; vivacissimi episodi di vita vissuta che brillano nel ricordo, come il tentativo di introdursi nella casa di Helen Wills al seguito di Bud Collins dopo essersi presentato come suo autista, la ricerca di un battoir, antenato della racchetta, nel mercatino londinese di Portobello, o un racconto di Hemingway colto al volo dalla sua viva voce, sedendo accanto a lui a un tavolino di un bar di Pamplona.
 Sono queste cose a rendere caro il libro a chi sa apprezzare l'unicità di Gianni Clerici.

Voto: 6