domenica 17 maggio 2020

Daniele Mencarelli, "Tutto chiede salvezza", Mondadori


 Con questo romanzo di matrice autobiografica, Daniele Mencarelli accompagna il lettore nell'universo della malattia mentale. Nel farlo, si spoglia di qualsiasi libidine letteraria, lasciando da parte ogni riferimento alla tradizionale, suggestiva correlazione tra arte e follia, per proporre una narrazione scabra e dura, in cui la pazzia è presentata come nuda sofferenza.
 Pochi i personaggi, essenziale l'ambientazione, povera e popolarmente incandescente la lingua che viene scelta per descrivere uomini, sentimenti e situazioni.
 L'incipit è quasi dantesco: Daniele, ancora intontito dai sedativi, viene ridestato dalle urla dei suoi compagni di stanza nel reparto di psichiatria di un ospedale nella zona dei Castelli Romani mentre uno di loro, munito di un accendino trovato chissà dove, tenta di appiccare il fuoco ai suoi capelli.
 E in effetti non è molto diverso da un girone infernale il luogo in cui - dopo un accesso di collera durante il quale ha devastato la casa dei suoi genitori e ha provocato in suo padre un malore che l'ha quasi ucciso - il protagonista-narratore viene confinato per una settimana in Trattamento Sanitario Obbligatorio: una stanza immersa in un caldo soffocante, condivisa con altri cinque malati vittime di gravi disturbi; un solo bagno maleodorante per tutti i degenti; un corridoio cieco lungo appena dieci metri; un minuscolo locale ricreativo, con una finestra e un vecchio televisore; infermieri scorbutici e sgarbati, impauriti dai pazienti, abbrutiti da anni e anni di servizio in un reparto difficile; medici distanti, incapaci di empatia, inclini a trattare le persone che hanno in cura come meri casi clinici, macchine biologiche dagli ingranaggi difettosi ai quali va innanzitutto impedito di fare danni.
 Siamo nel giugno del 1994, stanno per iniziare i Mondiali di calcio negli Stati Uniti a cui parteciperà anche la nazionale italiana allenata da Arrigo Sacchi e Daniele, che ha da poco compiuto vent'anni, vorrebbe poter fuggire da quella specie di prigione per andare a vedere le partite con gli amici, cercare di farsi perdonare dai suoi familiari per tutto ciò che hanno dovuto subire a causa sua, tornare come un tempo al lago di Albano per trovare un po' di refrigerio da quel clima torrido.
 Del resto, la consuetudine che ha sviluppato con psichiatri e psicofarmaci lo induce a riporre ben poche speranze nella possibilità che quel ricovero possa in qualche modo migliorare il quadro complesso dei suoi squilibri.
 Eppure, contemporaneamente, guardando i derelitti che sono suoi compagni di sventura e nella cui condizione, come in uno specchio, riesce a vedere riflessa l'immagine del suo stesso disagio di fronte al mondo, Daniele comprende di aver bisogno di un aiuto; alla sua età non può rassegnarsi a una vita da alienato.
 E poi, di tanto in tanto, a ondate, sente ritornare ad assillarlo l'ansia che l'ha portato lì, e che forse fuori dall'ospedale tornerebbe a sommergerlo del tutto; un'ansia simile a quella di cui ha sempre sofferto sua madre, ma in qualche modo moltiplicata, acuita, resa incontrollabile dalla sua particolare sensibilità, o dalla sua conclamata debolezza; un'ansia che lo espone a tutto il male che vede intorno a sé, al senso della spaventosa fragilità e della precarietà della condizione umana, all'incubo persistente della morte, e lo spinge a chiedersi come facciano gli altri, i "normali", a non farsi schiacciare da tutte queste cose, e gli fa febbrilmente anelare con tutto il suo essere a un bene che solo una parola può efficacemente compendiare, una parola che gli sembra debba gridare l'universo intero: salvezza

Daniele Mencarelli

 A ben vedere, tutti i suoi compagni di degenza - a cui il protagonista si accosta gradualmente e nei confronti dei quali matura affetto e pietà - non sono altro che degli afflitti senza speranza che chiedono salvezza, che desiderano solo essere soccorsi, essere aiutati a liberarsi dall'angoscia che in modo diverso, per cause diverse e con diversi gradi di intensità attanaglia ciascuno di loro.
 C'è Gianluca, un gay quarantenne che parla di sé al femminile, si veste da donna e pensa sempre al sesso, afflitto da una psicosi maniaco-depressiva forse originata - fra le altre cose - dall'incapacità di una madre opprimente di accettare il modo di essere del figlio.
 C'è Giorgio, un gigante di circa trent'anni che invece la mamma l'ha persa improvvisamente da bambino - e non è più riuscito a riprendersi dal trauma della sua morte e dal fatto che i medici, all'epoca della tragedia, gli impedirono di vederla per un'ultima volta - e il cui sviluppo psicologico si è fermato alla preadolescenza.
 C'è Mario, un sessantenne che assomiglia come una goccia d'acqua a Brian May, il chitarrista dei Queen: un ex maestro elementare colto e gentile, mite e capace di ascolto (anche se Daniele viene a sapere che, incredibilmente, in preda alla depressione, in passato ha cercato di uccidere la moglie e la figlia), che passa le sue giornate a contemplare serenamente un uccellino che ha fatto il nido sull'albero davanti alla sua finestra.
 C'è Madonnina, un giovane uomo secco, allucinato e sporco; nessuno sa chi sia o da dove venga, egli non riesce a dire nulla di sé ed è eternamente in balia di una specie di disperazione cosmica che gli fa ripetere all'infinito la stessa invocazione pronunciata con parossistico sgomento: "Maria ho perso l'anima! Aiutami Madonnina mia!".
 C'è Alessandro, un manovale misteriosamente precipitato in un assoluto stato di catatonia dall'incapacità di erigere a regola d'arte il tramezzo di cui il padre muratore gli aveva affidato la costruzione, che seduto nel letto di fronte a Daniele fissa costantemente un punto indefinito mezzo metro sopra la sua testa.
 E, nel contiguo reparto femminile - vietato a Daniele e ai suoi compagni, cui viene fatto credere che dietro la porta sempre chiusa in fondo al corridoio siano confinati i "cattivi", i malati intrattabili - c'è Valentina, che a quattordici anni è stata sedotta e abbandonata da un ragazzo più grande e, da allora, ripudiata dalla famiglia, vive nell'attesa folle e ossessiva del ritorno impossibile di un amore che in realtà non è mai stato tale. 
 Ma la stessa pietà meritano anche gli infermieri e i medici: Lorenzo "Pallesecche", che viene tiranneggiato dalla fidanzata; Rossana, che lavora di notte perché durante il giorno assiste il marito disabile; Pino, che dietro la sua malacreanza nasconde un ventennale amore non corrisposto per la collega, la stanchezza per un lavoro che non gli piace, il sogno sempre rimandato di aprire una bottega di fruttivendolo, riprendendo la professione dei propri genitori.
 E poi il dottor Mancino, che non sembra un medico ma un rugbista, e forse avrebbe davvero voluto fare altro nella vita, vista la scarsa attenzione che presta ai malati; e il dottor Cimaroli, all'apparenza più empatico e cortese, ma alla prova dei fatti anch'egli approssimativo e incapace di dare davvero ascolto ai suoi pazienti.
 Tutti costoro vivono sotto lo stesso cielo, tutti, in qualche modo, impostano il proprio rapporto con il reale su un gioco sottile di rimozioni, elusioni, precari compromessi atti a stabilire un equilibrio provvisorio tra paure, bisogni e desideri; tanto che viene il sospetto che la differenza tra sani e malati sia in fondo molto meno marcata di quanto comunemente si creda.
 Il libro è potente: la scansione in sette capitoli, basata sulla successione dei sette giorni della durata del TSO, è quasi purgatoriale; la secchezza e la semplicità con cui vengono descritte le dinamiche sentimentali che si sviluppano all'interno del reparto di psichiatria e determinano lo stato d'animo dei personaggi e l'evoluzione della loro condizione mentale sono efficacissime dal punto di vista espressivo. In più, l'uso del romanesco, con la sua perspicuità, col suo intimo calore e a volte con la sua grossolanità è semplicemente commovente.
 Assolutamente da leggere, secondo me.

Voto: 7,5

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