Succede spesso che, nelle sue opere, Paolo Rumiz, vada alla
ricerca di una storia e di una geografia dimenticate, affinché, come specchi dissepolti,
sappiano gettare sulla consapevolezza dell’oggi riflessi diversi.
Raramente, però, l’impulso a esplorare il passato è stato
determinato da un bisogno di verità tanto potente e tanto radicato in lui come
in questo caso.
Da triestino, erede della grande e misconosciuta tradizione
dell’impero austroungarico, egli si mette sulle tracce di tutti quei giovani
soldati italiani che, allo scoppio della Prima guerra mondiale, partirono dal
Trentino, dal Friuli e dall’Istria insieme alle truppe fedeli a Francesco
Giuseppe, verso le terre oscure e fangose dello sterminato fronte orientale, in
quella regione – anch’essa persa nelle nebbie del tempo – che allora era nota
col nome di Galizia.
Furono centomila, ben più numerosi degli irredentisti che
corsero ad arruolarsi nelle file del Regio Esercito, e si distinsero per il
loro coraggio e la loro lealtà, nonostante il fatto che, dopo il “tradimento”
dell’Italia, entrata in guerra contro l’Austria al fianco delle forze dell’Intesa,
dovettero subire ogni sorta di calunnie e di angherie da parte degli ufficiali
austriaci e magiari. Fra di essi, anche la vivida e commovente figura del nonno
dell’autore.
Soldati austriaci in Galizia
Il viaggio di Rumiz, però, non ha soltanto lo scopo di restituire il giusto onore a un esercito di giovani connazionali che si trovarono a combattere “dalla parte sbagliata”, e per questo furono rimossi dalla memoria ufficiale; serve invece soprattutto a raccogliere l’eco di tutti coloro il cui ricordo il veleno dei contrapposti nazionalismi ha tentato di neutralizzare, o peggio di coartare entro gli stereotipi della più stolida retorica patriottica: come quella ben rappresentata dal freddo e grandioso sarcofago del sacrario di Redipuglia.
Così, rievocando quasi come uno spiritista le voci sommesse dei
morti su tutti i fronti della Grande Guerra, piene di saggezza e di liriche
suggestioni, Rumiz giunge a coglierne il monito profondo, e a trasmettercelo
per suggerirci come molti dei problemi che angustiano l’Europa odierna (dalla
guerra civile in Ucraina al prevalere degli egoismi speculativi particolari sul
comune senso di appartenenza a una medesima civiltà) trovino riscontro nei
tragici errori che vennero commessi quando si precipitò inopinatamente verso il
conflitto assurdo che dilaniò il nostro continente cento anni fa.
Semplicemente indimenticabile la ricostruzione del passaggio a Trieste della salma dell'Arciduca Francesco Ferdinando: funerale simbolico a un mondo che ciecamente si accingeva all'autodistruzione e il cui spirito, oggi, si cerca fra mille difficoltà di ricostruire.
Voto: 7
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