lunedì 30 dicembre 2019

Olga Tokarczuk, "I vagabondi", Bompiani


 Questo libro della scrittrice polacca a cui è stato recentemente assegnato il premio Nobel per la Letteratura è uno strano oggetto: non lo si può considerare un romanzo, pur essendo percorso da una cospicua vena narrativa; assomiglia piuttosto a un trattato o a un manifesto, anche se è troppo asistematico per appartenere alla prima categoria e troppo svagato per rientrare nella seconda.
 Vi si analizza la dimensione del viaggio, con un approccio che talvolta è dichiaratamente autobiografico, talvolta sistematicamente filosofico, talaltra suggestivamente metaforico, talaltra ancora distesamente diegetico. Il concetto di viaggio ora implode in se stesso, ora esplode fino ad assorbire temi ed esperienze in apparenza appartenenti ad altri ambiti del sapere e dell'agire umano.
 Troppo facile, persino banale e in fondo impreciso sarebbe dire che il presupposto da cui la Tokarczuk parte è che la vita umana è un viaggio. Più giusto affermare che ferma convinzione dell'autrice è che l'uomo stesso sia un viaggio; anzi, una serie di viaggi sprofondati uno dentro l'altro, capaci di rimandare continuamente uno all'altro come in un infinito gioco di specchi che implica diversi livelli di consapevolezza e, addirittura, di "consistenza ontologica": un individuo può viaggiare nello spazio o nel tempo, può viaggiare fuori dalla propria coscienza o dentro di essa, può trasformare in un viaggio ciascuna interpretazione di ogni singolo aspetto della realtà o farsi trasportare come dentro una nave corazzata dalle più viete consuetudini del gruppo a cui appartiene.
 Possiamo viaggiare grazie alla nostra fantasia e a quella di chi ci sta vicino, con il nostro corpo o dentro di esso; il corpo, infatti, è la condizione fondamentale del viaggio, il suo limite (le restrizioni al movimento poste dai confini nazionali alle migrazioni riguardano specificamente i corpi delle persone) e, nella sua inevitabile provvisorietà, anche il suo fine (mai come quando siamo in movimento noi "diventiamo" in tutto e per tutto il nostro corpo).
 La meta di ogni viaggio, inoltre, è sempre qualcosa di parziale o perfino di ingannevole: dato che non si arriva mai dove si credeva di arrivare nel modo in cui si credeva di arrivare, il vagabondaggio è parte di ogni viaggio.
 Il caleidoscopio fenomenico che deriva da tutti questi assunti si traduce in una serie di aneddoti e di racconti diversissimi, che si riversano gli uni dentro gli altri - o lasciano posto gli uni agli altri - attraverso una serie di associazioni che, a tutta prima, sembrano assai peregrine, e solo a posteriori acquistano un senso. 

Olga Tokarczuk

 Si può così passare dalla descrizione di un treno carico di commessi viaggiatori alla storia di un uomo che, durante una vacanza in Grecia, vive la traumatica esperienza dell'improvvisa e inspiegabile scomparsa della moglie e del figlio; si va da una conferenza tenuta da alcuni specialisti in aeroporto sulla psicologia del viaggiatore al racconto di una donna ormai cinquantenne che dopo trent'anni ritorna in Polonia - abbandonata insieme ai genitori ai tempi del comunismo - solo per somministrare l'eutanasia al suo fidanzato di un tempo, mai più rivisto da allora.
 Ci si focalizza ora sulla vita di Philip Verheyen, anatomista allievo del celebre Frederik Ruysch, che vide nascere la sua vocazione nel momento in cui gli amputarono una gamba, ora sulla rappresentazione del sacchetto di plastica come una nuova specie vivente capace di colonizzare tutta la terra; ora sui viaggi in Europa dello zar Pietro il Grande, desideroso di apprendere quanto gli sarebbe servito per modernizzare il suo Paese, ora sulla capacità di un vecchio professore ormai prossimo alla fine di ritrovare forza e ispirazione per immergersi nella grecità classica oggetto dei suoi studi di una vita, ricreando in maniera geniale, a beneficio del suo uditorio, l'atmosfera di quel mondo scomparso.
 La supplica  all'imperatore d'Austria di Josephine von Feuchtersleben, figlia dell'unico consigliere di colore di Giuseppe II - imbalsamato dopo la morte per allestire insieme ad altre curiosità una Wunderkammer per il diletto dei frequentatori della corte - affinché il padre possa ricevere cristiana sepoltura, viene collegata alla consuetudine Maori di imbalsamare e conservare le teste dei membri della famiglia deceduti; la tentazione del dottor Blau, anatomopatologo, di concedersi all'anziana vedova di un suo prestigioso concorrente da poco scomparso nella speranza di sfruttarne le ricerche per ottenerne vantaggi accademici viene associata al viaggio in aereo di un gruppo di gonfi europei di mezza età verso un paradiso caraibico per comprare favori sessuali che sarebbe impensabile avere altrove. 
 Il testo, nel suo insieme è senz'altro molto originale e degno del massimo interesse; certo il lettore, anche quando trova belli e significativi i singoli racconti, può essere disorientato dalla logica con la quale il libro è costruito, e trovare artificiosamente e inutilmente complesse, per quanto suggestive, determinate correlazioni.

Voto: 6,5

giovedì 26 dicembre 2019

Israel Joshua Singer, "La famiglia Karnowski", Adelphi


 La famiglia Karnowski è uno di quei libri il cui potere di fascinazione deriva dalla straordinaria capacità di creare un mondo, di arredarlo in tutti i particolari, di trasportarvi il lettore e di dargli la sensazione di essere, in prima persona, testimone di tutto quanto vi viene rappresentato.
 Il romanzo, scritto in yiddish, uscito negli Stati Uniti nel 1943 e pubblicato per la prima volta in traduzione italiana pochi anni fa, ha il respiro di un classico d'altri tempi: si presenta infatti come una grandiosa saga familiare che, raccontando le vicende di tre generazioni diverse di una famiglia ebraica di origine polacca, scandaglia una porzione importante di quella che gli specialisti chiamano Storia contemporanea, tra la fine dell'Ottocento e gli anni trenta del Novecento.
 La narrazione è, per l'appunto, divisa in tre parti: la prima si sviluppa sotto il segno di David Karnowski, commerciante di legname polacco elevatosi con lo studio al rango di intellettuale. Seguace di Moses Mendelsson, interprete della tradizione ebraica di matrice illuminista, David - stabilitosi a Melnitz insieme alla moglie Lia - entra presto in contrasto con i notabili del suo shtetl di appartenenza per via del loro approccio oscurantista alle cose della religione. Trasferitosi quindi a Berlino, adotta immediatamente un atteggiamento modernamente laico, decidendo di essere ebreo nella propria casa, tedesco nella vita pubblica: impadronitosi velocemente della nuova lingua, riesce a integrarsi alla perfezione nell'eclettica classe dirigente della sua nuova città, diventandone un membro di riconosciuto prestigio.
 La seconda parte del libro gravita attorno a Georg Karnowski, figlio maggiore di David e Lia, cresciuto all'insegna dei valori del padre e, tuttavia, poco incline a seguire il solco per lui tracciato da genitori che finiscono per apparire troppo metodici, disciplinati e tradizionalisti per la sua indole ribelle e la sua esuberante personalità. 
 L'estraneità di Georg nei confronti del mondo ebraico appare subito molto marcata; la sua inquietudine esistenziale si traduce in una carriera scolastica quantomai tormentata, che non gli impedisce, dopo aver incontrato casualmente il dottor Landau - comunista e al servizio dei poveri di un quartiere operaio - e sua figlia Elsa, di intraprendere la carriera di medico.   

Israel Joshua Singer

 Affinata la sua abilità di chirurgo al fronte, in occasione del terribile bagno di sangue della Prima guerra mondiale, Georg si trasforma nel dopoguerra in un ginecologo fra i più ricercati, arrivando a possedere una sua rinomatissima clinica. Non riesce però a coronare con le nozze il suo amore per Elsa Landau, completamente assorbita dalla militanza politica nelle file della sinistra, e si unisce in matrimonio a Teresa Holbeck, tedesca "di sangue ariano", il cui scioperato fratello Hugo, reduce di guerra, compendia tutto l'egoismo, la dabbenaggine, l'incultura e la grettezza della piccola borghesia colpita dalla sconfitta nella Grande Guerra, impoverita dalla crisi economica e pronta a gettarsi nelle braccia del nascente nazionalsocialismo.
 La terza parte del romanzo è focalizzata sulla figura di Jegor Karnowski, figlio di Georg e Teresa, la cui fragilità caratteriale viene esasperata proprio nel corso della delicata fase dell'adolescenza dalle indicibili umiliazioni che, a scuola, è costretto a sopportare dal momento dell'avvento al potere degli "uomini con gli stivali": i nazisti di Adolf Hitler. 
 Del resto, tutti gli ebrei subiscono le conseguenze delle leggi razziali; i Karnowski, più fortunati di altri nella tragedia, riescono a trovare il modo di lasciare la Germania prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale e dell'avvio della "soluzione finale", emigrando negli Stati Uniti.
 Ciò nonostante, la vita a New York non sarà facile per nessuno di loro: David, riscoperta l'importanza della religione e dell'unità dei figli di Israele, si adatterà a fare da umile scaccino nella sinagoga da lui frequentata; Georg, impossibilitato a esercitare la professione medica nella nuova patria, dovrà tornare al mestiere di commesso viaggiatore dei suoi avi; Jegor, più spesato che mai, vagheggerà un impossibile ritorno in una Germania che lo rifiuta e, avendo interiorizzato gli assurdi pregiudizi dei nazisti, spingerà il disprezzo della parte ebraica di sé fino a un disperato tentativo di suicidio.
 Il libro non appare straordinariamente originale dal punto di vista tecnico, ma si presenta come un affresco ampio, articolato ed estremamente suggestivo dell'epopea degli ebrei della diaspora in Europa nei cinquant'anni che precedono la Seconda guerra mondiale. 
 Il suo principale punto di forza sta nella finissima caratterizzazione dei personaggi. Memorabili, infatti, risultano non solo i tre personaggi principali (David, Georg e Jegor Karnowski), ma anche molte altre figure che, a turno, occupano il centro della scena assurgendo al rango di coprotagonisti.
 Fra di loro spiccano senz'altro il dottor Landau (salutista e naturista, coriaceo e generoso, disposto a curare gratuitamente i suoi poveri clienti), Solomon Burack (il commerciante ebreo tutto battute e proverbi, fiero delle proprie tradizioni - e per questo in apertamente avverso allo snobismo di un David Karnowski - e dotato di una presenza di spirito che gli consente di affrontare con coraggio anche le peggiori situazioni) e il miserabile Hugo Holbeck (per mentalità e visione del mondo prototipo del nazista mediocre, vile, stolido e feroce).
 Tutti questi caratteri (e molti altri che qui è impossibile citare) subiscono nel corso del romanzo un'evoluzione che rende il loro profilo umano quantomai realistico, assolutamente credibile.
 Dal punto di vista della definizione degli ambienti e del tratteggio delle geometrie del racconto, invece, brillantissime risultano le prime due parti, un po' meno efficace l'ultima, afflitta dalla pretesa insistita di conferire un rilievo simbolico ad ambienti e situazioni. Un difetto però trascurabile al cospetto della consistenza della macchina narrativa nel suo complesso.

Voto: 7,5

mercoledì 18 dicembre 2019

Annie Ernaux, "L'evento", L'Orma


 Comunque la si pensi, quello dell'aborto è un tema che non si può affrontare con leggerezza. Esso implica infatti, da una parte, la questione del riconoscimento del diritto all'autodeterminazione della donna e della piena giurisdizione dell'essere femminile sul proprio corpo; dall'altra, il problema di una precisa definizione dell'essere umano: che cos'è un uomo? In quale momento un individuo appartenente alla nostra specie comincia a essere tale?
 C'è chi crede che un essere umano cominci nell'istante stesso del suo concepimento, e chi pensa che un feto diventi un uomo solo con la sua venuta al mondo, al momento del parto. C'è chi ritiene che l'embrione debba avere diritti perfettamente equivalenti a quelli di un uomo fatto, e che tali diritti facciano premio sulla facoltà della donna di decidere in assoluta autonomia dell'uso del proprio corpo; e chi - al contrario - reputa esclusiva ed inviolabile la libertà della donna di gestire da sola tutto quello che è pertinente alle funzioni del proprio essere femminile.
 In diversi Paesi, gli orientamenti giuridici in merito a tali questioni sono differenti, ma la legge - forse saggiamente, certo con un po' di vaghezza filosofica - tende sempre a imporre una soluzione che si pone tra questi due estremi.
 Personalmente sono convinto che un essere umano possa essere individuato dall'intreccio del suo corredo cromosomico e delle relazioni che stabilisce con i suoi simili nel corso dell'esistenza. Così, se il corredo cromosomico viene definito nell'istante stesso del concepimento, il principio della vita di relazione dell'individuo si può riconoscere nel frangente che vede l'annidamento dell'ovulo fecondato nell'utero materno.
 Basta questo per dire che è quello il momento in cui un essere umano ha inizio (e per trarne, dal punto di vista etico, conseguenze cogenti, come quella che vorrebbe lecita la cosiddetta "pillola del giorno dopo", che impedisce l'annidamento dell'ovulo fecondato, e illeciti altri mezzi abortivi)? Forse no, visto che il concetto stesso di vita di relazione è piuttosto complesso e fotografa una realtà che prende forma, si sviluppa e si consolida nel tempo.
 Inoltre la pretesa di stabilire ciò che è lecito e ciò che non lo è incrocia la questione ineludibile dell'autodeterminazione femminile: si può obbligare una donna a serbare dentro di sé suo malgrado un essere che la costringe a piegare il suo corpo alle proprie improcrastinabili esigenze?
 Al cospetto di questo groviglio quasi inestricabile di dilemmi irrisolti, i libri che trattano narrativamente il problema dell'aborto non possono che contemplare le questioni filosofiche senza indugiare su di esse, insistendo piuttosto sugli aspetto storici e sociologici di questo difficile tema; affidandosi magari alla capacità quasi magica del racconto di suggerire spesso verità che sanno andare oltre le tesi preconcette da cui esso prende le mosse.

Annie Ernaux

 Così è senz'altro per L'evento di Annie Ernaux, che rievoca l'esperienza sconvolgente dell'aborto clandestino con cui l'autrice, nel gennaio del 1964, quando era una studentessa universitaria di soli 23 anni, decise volontariamente di interrompere una gravidanza inattesa e indesiderata.
 L'aborto, allora, in Francia, era una pratica illegale; e tuttavia molte giovani vi ricorrevano, poiché fortissimo era lo stigma sociale per le sventurate che concepivano un figlio fuori dal matrimonio.
 Per di più, per Annie, dare seguito alla propria gravidanza avrebbe significato riconoscere la fondatezza di quei pregiudizi classisti che volevano le ragazze di estrazione popolare naturalmente inclini a "rovinarsi", e quindi accettare di essere ricacciata come in una prigione nel mondo piccolo borghese ed operaio dal quale proveniva, senza più possibilità di uscirne.
 Il testo si giova di un efficacissimo effetto di "presentificazione" degli avvenimenti del 1963-64: Annie accoglie la notizia della sua gravidanza con incredulità più che con sgomento, e all'incredulità fa seguito un curioso senso di inerzia che la ragazza fatica a scrollarsi di dosso. Del resto, nessuno di coloro che le sono intorno la aiuta minimamente a rendersi conto della sua condizione e a riflettere su di essa: confidarsi con i genitori è fuori discussione; le compagne a cui rivela il proprio segreto la guardano con indifferenza o commiserazione; i ragazzi la osservano con morbosa curiosità, come la protagonista di una storia piccante che si vuole sapere come andrà a finire.
 Il senso di abbandono di Annie è totale, e si combina con un torpore irreale. Solo quando il rischio di restare impigliata in una situazione ormai senza rimedio si fa concreto, la ragazza decide di agire: grazie a una conoscente che ha vissuto la propria medesima esperienza, la protagonista si rivolge a una "fabbricante d'angeli" di Parigi che, con un duplice intervento non privo di qualche complicazione, la libera del suo imbarazzante fardello.
 Il libro è bello perché la ricostruzione della temperie emotiva che definì il periodo compreso tra l'ottobre del 1963 e il gennaio del 1964 è estremamente coscienziosa.
 Dal punto di vista formale, vale forse la pena di notare un elemento significativo. In tutti i libri della Ernaux si fa ampio uso di parentesi che racchiudono i pensieri riferibili a un livello di coscienza più profondo rispetto a quello che asseconda il flusso narrativo, quasi a un piano meta-narrativo e meta-normativo (capace di andare oltre i punti fermi del buon senso, del senso comune e, addirittura, della perfetta coerenza logico-razionale). Ebbene, le caratteristiche parentesi della Ernaux non sono mai state numerose come in questo testo: segno probabilmente che l'autrice si ritrova a maneggiare una materia ancora incandescente, con aspetti di cui è difficile parlare e che è persino difficile affrontare.
 Tocca al lettore - se ne ha la forza - varcare il confine filosofico in prossimità del quale la Ernaux si ferma, decidendo di riversare nel fedele racconto degli avvenimenti e degli stati d'animo di allora tutta la propria onestà intellettuale.
 Una scelta, questa, che pone il testo della scrittrice francese molte spanne sopra quell'insopportabile esercizio di retorica che è la "Lettera a un bambino mai nato" di Oriana Fallaci, l'opera che forse per prima ha affrontato narrativamente in Italia la questione dell'aborto.

Voto: 7

lunedì 18 novembre 2019

Viola Ardone, "Il treno dei bambini", Einaudi


 Napoli, 1946. Nella città lasciata dalla guerra in condizioni drammatiche, con gran parte della popolazione che lotta per non sprofondare nella miseria più nera, il Partito Comunista - mostrando l'incisiva capacità di intervenire sul disagio sociale che possedeva nel secondo dopoguerra - organizza una grandiosa iniziativa di contrasto alla povertà infantile: ai bambini che vivono nei quartieri dove la situazione è più penosa viene data l'opportunità di trasferirsi per alcuni mesi in Emilia Romagna, dove vi sono famiglie vicine al Partito disposte ad accoglierli, ad ospitarli e ad accudirli.
 In questo modo, i genitori dei piccoli, con una bocca in meno da sfamare, potranno trovare il modo di fare fronte meglio alle difficoltà quotidiane, mentre i bambini per qualche tempo potranno stare al caldo, nutrirsi come si deve e ricevere un'istruzione migliore. I giovani beneficiari dell'imponente operazione partiranno da Napoli prima dell'arrivo dell'inverno su un lungo convoglio, presto ribattezzato "il treno dei bambini".
 A questa avventura si trova a partecipare anche Amerigo Speranza. Amerigo ha otto anni, e vive con la mamma Antonietta in uno dei tipici "bassi" napoletani, caldi d'estate e freddi d'inverno; un padre non l'ha mai avuto (la madre gli ha raccontato che il marito è partito tempo prima per l'America e che un giorno tornerà, ma forse si tratta solo una pietosa bugia) e suo fratello Luigi è morto prima che lui nascesse.
 Antonietta, che non sa leggere né scrivere, sbarca a fatica il lunario grazie a piccoli lavori di cucito e facendo da basista per un losco individuo che traffica nella borsa nera e che forse è anche il suo amante. Amerigo, dopo aver abbandonato la scuola - dove non imparava nulla e veniva maltrattato dagli insegnanti - la aiuta raccogliendo pezze usate per uno straccivendolo insieme al suo amico Tommasino, e talvolta si ingegna con piccole truffe per arrotondare l'esile bilancio familiare (come quando ha colorato il pelo grigio di alcuni grossi topi prima di venderli alle signore borghesi che frequentano il mercato settimanale facendoli passare per criceti).
 Antonietta, in verità, esita non poco di fronte alla prospettiva di separarsi da Amerigo, anche se il mantenimento del figlio è fonte per lei di continue preoccupazioni. In più la Pachiochia, fascista (o meglio, "monarchica") dichiarata e "opinion leader" del vicolo in cui Antonietta e Amerigo vivono, sostiene che i bambini, in realtà, verranno spediti in Russia e fatti lavorare come schiavi, o peggio.
 Solo la determinazione e la dolcezza di Maddalena Criscuolo, giovane militante comunista, riusciranno infine a vincere le residue resistenze della madre e a convincerla a lasciar partire il figlio per il suo bene.

 Viola Ardone

 Ma davvero la trasferta nel Nord Italia è destinata a fare del bene al bambino? L'esperienza di Amerigo in un villaggio vicino a Modena, da esule costretto a vivere della carità dei suoi ospiti, non sarà facile; certo i Benvenuti - la signora Derna con la sorella Rosa, il marito di quest'ultima Alcide e i loro tre figli (curiosamente chiamati, con fantasia tipicamente emiliana, Rivo, Luzio e Nario) - riusciranno a farlo sentire come a casa. Non solo: in Emilia, nel laboratorio da liutaio di Alcide, Amerigo scoprirà di avere un particolare talento e una innata passione per la musica; comincerà così a studiare il violino, e questo darà un indirizzo inatteso a tutta la sua vita.
 E tuttavia, al momento del ritorno casa, Amerigo sarà costretto a fare i conti con il disincanto di chi ha conosciuto un'altra realtà rispetto alla propria: di nuovo a contatto con la miseria del vicolo, con la ristrettezza di vedute di mamma Antonietta, con la tirannia delle necessità quotidiane, comincerà a rimpiangere i Benvenuti, le mattinate a scuola, l'affetto di Derna, le lezioni di violino. E quando la sua angoscia diverrà davvero intollerabile - dopo la vendita da parte di Antonietta del violino che Alcide gli aveva regalato -, pur con la morte del cuore, il bambino fuggirà, allontanandosi di nuovo dalla madre su un treno diretto a Nord: Amerigo, così, diventerà padrone della sua vita, sacrificando però per sempre il rapporto magico ed esclusivo che nell'infanzia lo aveva legato alla mamma.
 Il libro è bello e nasce da uno spunto piuttosto originale, anche se - ed è un peccato - a mio parere soffre di uno squilibrio di fondo: infatti, mentre le prime tre parti paiono molto coinvolgenti e stilisticamente efficaci, e presentano una scrittura "impura" che, con i suoi solecismi, incorpora alla perfezione il punto di vista del piccolo protagonista, la quarta parte, in cui un Amerigo adulto, diventato un violinista di successo, torna a Napoli nel 1994 per partecipare al funerale della madre Antonietta improvvisamente venuta a mancare, sembra un pezzo di un altro libro, meno fresco, meno genuino, meno riuscito.
 L'impressione che ho ricavato dalla lettura dell'ultima sezione, così, è simile a quella che mi dà la visione della parte finale di un film peraltro gradevole come Nuovo cinema Paradiso ogni volta che mi capita di imbattermi in esso: qualcosa di ridondante, didascalico e insopportabilmente melenso, anche se per certi versi utile al "compimento" della storia. E' come se il cambio di registro richiesto dalla trama non fosse nelle corde là del regista Giuseppe Tornatore, qui della scrittrice Viola Ardone.
 Detto ciò, Il treno dei bambini rimane uno dei romanzi più interessanti pubblicati in Italia negli ultimi mesi: la vicenda raccontata è appassionante, l'avventura del protagonista riesce ad accendere l'immaginazione, l'immersione in un'Italia martoriata, ma più semplice, più autentica e più capace di solidarietà di quella di oggi è come una boccata d'aria fresca.
 Insomma, vale dunque senza dubbio la pena di dedicarsi a questo libro che, utilizzando con grande naturalezza e senza eccessiva affettazione la chiave narrativa, porta all'attenzione del pubblico un episodio della nostra Storia piccolo ma significativo e glorioso, e a molti ancora sconosciuto.

Voto: 7

venerdì 8 novembre 2019

Stendhal, "Il rosso e il nero", Garzanti


 Negli ultimi tempi ho deciso di tornare su alcuni dei grandi classici della nostra civiltà letteraria, che una volta facevano parte del bagaglio delle letture "obbligatorie" per qualsiasi persona di media cultura, mentre oggi, sebbene li si continui a citare con frequenza e si riconosca teoricamente il loro valore, per una ragione o per l'altra sono poco frequentati e in concreto poco conosciuti anche dai lettori abituali.
 Oggi prendo in considerazione uno dei migliori romanzi mai scritti: Le rouge et le noir di Stendhal.
 Pare superfluo ricapitolare la vasta trama del libro; basti dire che del protagonista unico Julien Sorel - prototipo del giovane brillante ma dagli scarsi mezzi che cerca di ritagliarsi un proprio spazio nella Francia della Restaurazione - vengono focalizzati, sviluppati e analizzati i diversi aspetti del carattere in differenti fasi della sua evoluzione al cospetto di varie situazioni: Julien, così, viene via via rappresentato come ragazzo timido e amante della lettura e del latino, e per questo disprezzato dal padre - rozzo proprietario di una segheria a Verrières - e dai fratelli; come scrupoloso precettore dei figli del Sindaco della sua graziosa cittadina nella Franca Contea; come amante appassionato di madame de Renal, la moglie del Sindaco; come guardingo seminarista a Besançon - dopo la fuga conseguente alla scoperta della sua tresca con madame de Renal -, attirato dal prestigio e dalle ricche prebende che gli garantirebbe la carriera ecclesiastica; come segretario particolare del marchese de la Mole, assunto grazie all'intercessione del giansenista direttore del seminario; come abile diplomatico incaricato di una delicata missione oltremanica; come cinico seduttore di Mathilde, la graziosa figlia del marchese - promessa sposa di un duca -, presto incinta del giovane dipendente del padre; come vendicativo difensore della propria dignità offesa, dopo essere stato calunniato da madame de Renal, gelosa della sua relazione con Mathilde; come imputato in un processo clamoroso, in seguito al ferimento della sua ex amante; come condannato a morte - a causa della grettezza dei suoi nemici - capace di affrontare impavidamente il patibolo, al pari di un eroe dei tempi antichi.

 Stendhal

 Tante sono le ragioni per le quali il libro si può considerare ancora oggi esemplare. Secondo me le principali sono tre. La prima è quella che potremmo chiamare la "naturalezza" del tono di Stendhal, vale a dire l'affabilità con la quale vengono raccontati gli accadimenti e riportati i pensieri dei personaggi, e - nello stesso tempo - la disinvoltura con cui, talvolta, si esce dal meccanismo della finzione narrativa per dichiararne a chiare lettere i presupposti teorici: Stendhal vede il suo romanzo come una sorta di specchio fedele della realtà, capace di riprodurne gli aspetti sublimi così come la sordidezza, rifuggendo consapevolmente da ogni manierismo; un'idea forse un po' ingenua, ma chiara e indubbiamente potente.
 La seconda è la capacità di sfuggire alla logica del romanzo a tesi, tanto nella costruzione dei personaggi (e in particolare del protagonista, Julien Sorel) quanto nello sviluppo della trama: lo scrittore francese esce dalla trappola della stabilità tipologica dei caratteri che affligge tanti romanzieri, evita ogni eccessivo schematismo e, in generale, non teme la contraddizione. L'effetto realistico che ne deriva è a tratti addirittura sorprendente.
 La terza è la scelta di non prescindere mai dal contesto socio politico in cui le vicende raccontate sono immerse, da cui sono ovviamente influenzate o da cui perfino dipendono: infatti, non si capirebbero molte delle scelte di Julien Sorel se si trascurasse il mondo in cui vive e agisce.
 Sono tutti elementi all'apparenza semplici; ma in quanti testi si possono dire davvero realizzati? In fondo la cristallina linearità è una degli obiettivi più difficili da perseguire per un romanziere.

Voto: 10

martedì 29 ottobre 2019

David Szalay, "Turbolenza", Adelphi


 Tutti noi siamo spesso portati a collocare la globalizzazione - quel processo epocale per cui si definisce una realtà in cui esistono solide interconnessioni tra eventi che avvengono in parti del mondo diverse e tra loro lontanissime - a ridosso della contemporaneità, e a collegarla con la rivoluzione cibernetica o addirittura con la diffusione di internet e degli smartphone. 
 In verità, le origini di questa fase storica sono da collocare molto più indietro nel tempo, e uno degli strumenti tecnici e dei simboli della sua piena realizzazione si può senz'altro individuare nell'aeroplano, soprattutto da quando i voli di linea sono stati in grado di unire fra loro gli angoli più remoti del pianeta.
 Per questo sembra particolarmente appropriata la scelta di David Szalay di utilizzare una serie di voli aerei come anelli di congiunzione tra le vite di dodici personaggi assolutamente differenti per professione, provenienza, cultura, estrazione sociale, ma accomunati dal fatto di essere sospesi tra i legami al loro Paese d'origine e la necessità o le circostanze che li hanno portati lontani da esso, rendendoli, in un certo senso, "cittadini del mondo"; rappresentanti, ciascuno a suo modo, della cultura globalizzata, interpreti di un'uguaglianza fittizia, disorientati e terribilmente soli al cospetto di una realtà nella quale, in teoria, dovrebbero essere perfettamente integrati e della quale dovrebbero essere assolutamente padroni.
 Le gallerie di caratteri capaci di incarnare tipi umani rappresentativi di specifici - e in un certo senso archetipici - modi di essere sono senza dubbio nelle corde dello scrittore canadese: lo dimostra l'interessante Tutto quello che è un uomo, pubblicato pochi anni fa. Là si intercettava un momento specifico della traiettoria esistenziale di nove uomini di età diversa, analizzando il loro rapporto con la famiglia, con il sesso e con la morte; in questo caso i personaggi presi in considerazione sono dodici, ciascuno protagonista di un capitolo (il cui titolo è costituito dalla sigla del volo aereo che lo introduce) che consiste in una breve incursione nella sua vita. In ogni capitolo, il protagonista di turno sfiora un altro personaggio destinato a diventare, dopo un nuovo volo, il protagonista del capitolo successivo.
 Le vite dei dodici protagonisti, sebbene assai diverse fra loro, sono accomunate da un destrutturante senso di precarietà. Tale senso di precarietà può essere determinato dalla malattia o dall'incombere della morte, dal dramma di una tragedia improvvisa, dall'instabilità affettiva, dal deteriorarsi di un'amicizia, dal logorio dovuto a un trauma mai superato, dalle liti familiari, da un incoercibile senso di colpa, dalle difficoltà economiche, dal rimorso o dal tarlo di un pregiudizio.

David Szalay

  Si va dalla vecchia madre di un uomo in cura per un cancro alla prostata (volo Londra-Madrid), a un manager senegalese che ancora non sa di aver perso il figlio adolescente in un banale incidente stradale (Madrid-Dakar); dal pilota d'aereo in ansia per una storia d'amore lasciata in sospeso (Dakar-San Paolo), alla giornalista sentimentalmente fluida in procinto di intervistare una famosa scrittrice canadese (San Paolo-Toronto); dalla scrittrice stessa che accorre al capezzale della figlia che ha appena partorito un bambino cieco (Toronto-Seattle), alla sessantenne cinese che, ospite della figlia trasferitasi a Seattle, riflette sul suo amore clandestino con un medico indiano (Seattle-Hong Kong); dal medico indiano che incontra a Saigon il fratello che gli deve da tempo dei soldi (Hong Kong-Saigon), ad Abhijit, il fratello del medico che fra mille rimorsi deruba il padre infermo, già severissimo preside di un prestigioso istituto scolastico (Saigon-New Delhi); da Anita, la domestica del vecchio preside che fa visita alla sorella maltrattata dal marito (New Delhi-Kochi), a Shamgar, il cognato di Anita, giardiniere nella casa di una donna occidentale in Qatar, che nasconde la propria omosessualità dietro l'impazienza con cui tratta la moglie (Kochi-Doha); da Ursula, la "sponsor" di Shamgar, che si divide tra il Qatar e la figlia che vive a Budapest, e che è terribilmente infastidita dalla relazione che quest'ultima ha intrecciato con Moussa, un rifugiato siriano in Ungheria (Doha-Budapest), a Miranda, la figlia di Ursula e del suo ex marito, il personaggio da cui il libro è partito, l'uomo malato del primo racconto, il padre con cui la ragazza vorrebbe tanto un rapporto più profondo di quello che riesce concretamente a stabilire con lui (Budapest-Londra).
 Per molti versi il libro appare un po' troppo schematico, anche se la meccanicità del gioco sul quale è impostata la sua struttura trova una ragione di fondo nella labilità delle personalità individuali dei protagonisti per come vengono qui definite: pare infatti che, in una certa misura, tutti i personaggi siano intercambiabili, e che il loro statuto identitario dipenda da fattori del tutto incidentali, passibili di trasformazioni anche piuttosto rapide.
 Ogni uomo, nel mondo globalizzato, sembra insomma ridotto a una pedina su uno scacchiere gigantesco, mossa e agita da forze che l'individuo non può in alcun modo controllare, e che tendono a spogliarlo perfino dei suoi attributi essenziali, riducendolo al paradigma di un tipo caratteristico.
 Una visione della realtà radicalmente pessimistica, totalmente disincantata, ma forse nel contempo anche un po' troppo superficiale per apparire davvero convincente.

Voto: 6

giovedì 24 ottobre 2019

Emanuele Trevi, "Sogni e favole", Ponte alle Grazie


 Questo libro - vincitore del Premio Viareggio Répaci - sembra venire da un'altra epoca: non si può definire un romanzo (a dispetto del richiamo a questo genere in copertina), né un saggio, né una memoria autobiografica; è invece, si può dire, tutte queste cose insieme.
 Autobiografico è l'episodio dal quale la narrazione prende le mosse, l'incontro avvenuto nel 1983 in un Cineclub di Roma - dove era stato appena proiettato un film di Andrej Tarkovskij - fra l'autore allora giovanissimo e Arturo Patten, fotografo, americano d'origine ma romano d'adozione, uomo dalla caleidoscopica personalità e dalla squisita sensibilità, artista vero. L'incontro segnò l'inizio di una amicizia solida e profonda.
 Autobiografico è il vagabondaggio di Trevi per le vie di Roma, che consente di fluire e di precisarsi ai pensieri che nascono dall'osservazione dal vivo di luoghi e di opere d'arte, e dal dilagare fra di essi della memoria letteraria e della memoria tout court, sulla scorta delle quali il filo narrativo si dipana.
 I personaggi che via via entrano in scena, invece, sebbene sempre legati a ricordi personali dell'autore, assumono una rilevanza culturale che gli elementi biografici e la fantasia romanzesca possono nutrire, ma che va comunque oltre queste istanze. Così è per il già citato Arturo Patten, così è per la poetessa Amelia Rosselli, così è per il critico Cesare Garboli; così è, soprattutto, per Pietro Metastasio, che da parecchi punti di vista si può considerare il fulcro di tutto il meccanismo narrativo.
 Metastasio è innanzitutto l'autore del sonetto da cui viene tratto il titolo del libro; una poesia che, vista l'importanza di cui è investita nell'economia del testo e del suo sviluppo, vale la pena riportare integralmente:

Sogni e favole io fingo; e pure in carte
mentre favole e sogni orno, e disegno,
in lor, folle ch'io son, prendo tal parte,
che del mal che inventai piango, e mi sdegno.

Ma forse, allor che non m'inganna l'arte,
più saggio io sono? E' l'agitato ingegno
forse allor più tranquillo? O forse parte
da più salda cagion l'amor, lo sdegno?

Ah che non sol quelle, ch'io canto, o scrivo,
favole son; ma quanto temo, o spero,
tutto è menzogna, e delirando io vivo!

Sogno della mia vita è il corso intero.
Deh tu, Signor, quando a destarmi arrivo,
fa' che trovi riposo in sen del vero.

 Emanuele Trevi

 Ora, il sonetto di Metastasio, scritto nella primavera del 1733 a Vienna - dove la carriera di uno dei più famosi scrittori del Settecento, di umilissime origini, aveva trovato coronamento nel servizio presso la famiglia imperiale degli Asburgo - viene considerato da Trevi sommamente rappresentativo di uno stato d'animo e di una visione del mondo che vedono la vita come un grande incantamento in cui la suggestione conta assai di più di quell'entità sfuggente e forse intrinsecamente ectoplasmatica che viene definita "realtà", "vero", "verità". Un sentimento sorprendente per la sua ambivalenza in un artista perfettamente integrato nella società del suo tempo, organico al sistema, inquadrato come poeta di corte e per questo disprezzato dall'Alfieri e da tutti coloro, che - nel solco del tragediografo - considerano un ribellismo di maniera consustanziale alla figura dello scrittore "autentico".
 Questo sentimento, in sostanza simile a un profondo, consapevole spaesamento, può portare paradossalmente a collegare Metastasio a poeti da lui lontanissimi, come Lope de Vega, Fernando Pessoa o la già considerata Amelia Rosselli.
 La cosa curiosa è che queste riflessioni, che permeano il tessuto filosofico di cui il libro è tramato, quasi a chiudere romanzescamente il cerchio dell'itinerario narrativo, tornano a saldarsi in diversi modi alla concreta esperienza esistenziale dell'autore da cui hanno avuto origine; la sua e quella di chi egli ha avuto modo di conoscere direttamente.
 Innanzitutto, infatti, il compito di pubblicare un testo che analizzasse il sonetto di Metastasio sopra riportato era stato affidato a Trevi da Cesare Garboli che, arrivato agli ultimi anni della sua vita, era solito "commissionare" ad amici e conoscenti i libri che sentiva di non avere il tempo di scrivere; in secondo luogo, la singolare temperie emotiva espressa dal componimento trova riscontro in qualche modo anche nei tratti essenziali che caratterizzarono l'opera, lo stile, il modo di essere in cui si incarnò il genio tanto di Amelia Rosselli quanto di Cesare Garboli e di Arturo Patten.
 Così, Sogni e favole giunge a realizzare un livello di integrazione tra il tema e il suo svolgimento - e tra la forma e il contenuto - degno di un'opera barocca o di un libro di Italo Calvino, perseguendo nel contempo la ricerca di quella naturalezza che deriva dalla sprezzatura delle simmetrie esibite.
 Il risultato è senz'altro notevole, e ammirevole da ogni punto di vista la padronanza con cui il gioco viene condotto fino in fondo, arrivando a far vibrare qualcosa di profondamente umano fra le pagine di questo testo.

Voto: 7,5

sabato 12 ottobre 2019

David Sedaris, "Calypso", Mondadori


 La scrittura di David Sedaris è umoristica nel senso più pieno, profondo e caleidoscopicamente articolato del termine. 
 L'approccio ai temi che vengono trattati - anche i più seri -, infatti, è sempre impostato all'insegna della comicità, di volta in volta declinata secondo i tipi dell'ironia sottile, del sarcasmo spietato, della frivola canzonatura, della battuta leggera o della burla bonaria; e tuttavia non manca mai il "sentimento del contrario", che interviene a illuminare quanto di triste, malinconico o francamente angosciante esiste dietro situazioni che, a tutta prima, sembrerebbero semplicemente muovere al riso.
 Però non ci si ferma mai qui: perché la penna dell'autore veleggia immediatamente verso un diverso approdo, una differente conclusione, che si tratti di un giudizio feroce nei confronti di un determinato individuo o di un determinato atteggiamento, della confessione di una colpa o di un'invincibile debolezza, di un'espressione di affetto verso un amico o un famigliare, di una manifestazione di magnanima tolleranza, della condivisione di un ricordo o di un pensiero intimo.
 Il libro è composto da 21 prose di argomento vario: si va dalla ricognizione delle proprie manie alle elucubrazioni sul proprio stato di salute, dall'acquisto di una casa di fronte all'Oceano per le vacanze di tutta la famiglia alla celebrazione di una mostruosa tartaruga azzannatrice, dalla sceneggiatura di situazioni bizzarre o ridicole a estemporanee riflessioni politiche sui diritti dei gay o sull'elezione di Trump, dal racconto del suicidio della sorella Tiffany alla ricostruzione del segreto alcolismo della madre, dal difficile rapporto col padre alla denuncia dei limiti della propria esibita eccentricità.
 Ad accomunare tutti questi pezzi, come detto, c'è l'utilizzo della leva umoristica, che viene impiegata in modo tale da togliere al racconto qualsiasi convenzionalità e problematizzare in maniera inconsueta la sostanza della narrazione attraverso lo sgretolamento di tutti i seriosi luoghi comuni che fioriscono intorno a situazioni che siamo abituati a ritenere tragiche; per slittare poi subito, a dispetto dell'adozione del registro comico (che si è soliti paradossalmente ritenere un'istanza di semplificazione), verso l'estemporanea scoperta di aspetti della questione trattata che neppure sospettavamo che esistessero.

David Sedaris

 Prendiamo la vicenda del suicidio della sorella Tiffany, che con David - come con tutto il resto della famiglia - aveva sempre avuto un rapporto assai difficile. Se guardiamo la cosa dall'esterno, tutto appare terribile: siamo di fronte alla drammatica conclusione della vicenda terrena di una donna che con il fratello maggiore non parlava più da quattro anni - in seguito a una lite - e che, a dispetto del benessere di tutti i suoi famigliari, viveva nella più completa indigenza; ce ne sarebbe abbastanza per una contrita geremiade.
 In realtà, Sedaris tratteggia il ritratto di Tiffany con mano leggerissima, come se si trattasse di un fumetto, pur senza nascondere nulla sul suo conto e sui rapporti che intratteneva con lei. In questo modo è come se rompesse la crosta di ostilità che costellava la loro relazione fraterna e donasse a Tiffany un profilo bizzarro che il lettore può guardare con maggiore benevolenza; il dolore per la sua scomparsa non viene meno, ma rimane sullo sfondo, e si trasforma in qualcosa di più intimo e vero.
 O ancora, prendiamo la rivelazione dell'alcolismo della madre: un grumo di dolore fatto di rabbia, rammarico e sensi di colpa dovrebbe verosimilmente giacere al cuore di questa vicenda. Sedaris in realtà la racconta come se solo precisando la natura di questo problema potesse poi tornare a scherzare sui ricordi che riguardano la madre, a descrivere un amore totalizzante che ingloba anche le debolezze e i difetti, e che di sicuro conta più di essi.
 Il tono umoristico non viene meno neppure nei passi in cui il discorso assume una piega in qualche modo macabra: quando si parla di bagnanti divorati dagli squali, ad esempio, o quando, trattando del proprio ingresso nella mezza età, preludio della vecchiaia, l'autore confessa di sentir incombere sopra di sé l'ombra della morte; noi ridiamo perché il tono è vivace e scanzonato, ma in filigrana continuiamo a percepire un timore affilatissimo, che torna a galla anche quando lo si sommerge con la propria vitalità.
 Le prose migliori, a mio parere sono quella intitolata Sorry, sulle cattiverie reciproche che ci si scambia fra famigliari, e Perché non ridi?, dove al termine di un lunghissimo e divagante percorso narrativo si arriva a raccontare - come detto - dell'alcolismo della madre. Ma il livello della scrittura è sempre alto, così come il tono è sempre assai brillante.

Voto: 7

domenica 29 settembre 2019

Cees Nooteboom, "L'occhio del monaco", Einaudi


 Sebbene in apparenza le 33 poesie di cui è composta questa raccolta, nella loro perfetta struttura metrica, siano costruite su immagini, sensazioni, ricordi e proiezioni oniriche, l'ispirazione da cui nasce l'ultimo libro di uno dei più grandi scrittori olandesi va oltre l'osservazione, va oltre la percezione, va oltre la biografia, va oltre il sogno: è pura teoresi.
 Il pensiero fondamentale da cui si genera il movimento lirico è questo: la realtà intorno a noi è assai più ricca di quanto ci possa sembrare, ma noi non possediamo gli strumenti né per coglierla in tutte le sue sfumature, né per interpretarne correttamente i particolari che, se non riusciamo davvero a mettere a fuoco, possiamo almeno intuire (esemplari versi come questi: "La cornacchia, sopra le betulle, gli chiese chi era, / ma lui non seppe rispondere"; "Imparo i segni / a memoria, e li trascrivo // nella sabbia"; "La scala è sulla / bilancia, non sul mondo, la domanda / si moltiplica. Ognuno è se stesso / prima di pensare").
 Però, a rompere l'incanto che deriva dalla convinzione di essere immersi in un universo sì sfuggente, ma immenso e fatato - laddove cose, animali, uomini, viventi e non più viventi condividono un medesimo piano esistenziale - interviene il dubbio che tutta complessità che abbiamo di fronte non abbia una logica ("C'è in questo miraggio un senso, / una logica? O sono parole / che si nutrono della lingua come movimento, / parlando a se stesse?"), o che l'incombere su ogni cosa della morte renda vana qualsiasi indagine o speculazione ("Non rispondere è sempre una risposta, / la carpa diventa poi una balena, / il piccolo diventa grande / e accudisce il piccolo // finché morte non sopravviene").
 Nonostante questo pare che l'uomo in generale e il poeta in particolare non possano fare a meno di immaginare ("cento metri più avanti / ha inizio il limite del mondo, attenzione, sognatore // cadrai giù come un sasso") e di sentire poeticamente il mondo ("senti il ritmo / dei tuoi passi, la poesia del dubbio / se esista la coscienza, e quando poi // semplicemente muoia" ; "linguaggio come tela di ragno / ma intessuta col ferro"), trovando infine il modo, bene o male, di entrare in armonia con esso ("un verso giunge a noi da un nulla / che vuole altro, ma cosa? / Domandalo e lo otterrai, qualsiasi cosa tu voglia.").

Cees Nooteboom

 Alla luce di una simile constatazione, problemi come l'anima, o la salvaguardia dell'identità individuale diventano irrilevanti: noi siamo, e tanto basta ("Nessuno ci ha inventato, eravamo nella polvere / già nel primo istante"). Così, partendo da questo presupposto, ogni poesia diventa possibile - quella puramente contemplativa, quella filosoficamente ragionativa, quella più cupamente pessimistica -, ciascuna legittimata dal'onestà dell'approccio conoscitivo adottato.
 Il più bello dei componimenti della raccolta? Per me, questo:

Sul sentiero tra le dune ho incontrato mia madre, 
lei però non mi ha visto. Parlava con un'altra 
signora e ho sentito che diceva: tutti
qui mi trovano simpatica.

Sapevo che era vera per il rumore
delle conchiglie sbriciolate sotto i suoi piedi.
Poi ho visto anche mio fratello e il mio fratellastro
in cammino con il mio stesso passato,

caos e inquietudine. Il Mare del Nord schiumava selvaggio,
la spiaggia era deserta. I miei fratelli erano trasparenti.
Attraverso di loro vedevo il sentiero. Vorrei trovare ora un tesoro,
un dente di narvalo portato a riva, o dell'oro,

e tutto tornerebbe a posto.

Voto: 7

  

domenica 22 settembre 2019

Luigi Guarnieri, "Forsennatamente Mr. Foscolo", La nave di Teseo


  Il libro è una originale biografia romanzata di uno dei nostri classici dell'Ottocento ultimamente meno letti e considerati, nonostante quella riconosciuta certificazione di valore costituita dal posto abitualmente occupato nel canone degli autori letterari che fanno parte dei programmi scolastici: Ugo Foscolo.
 Di Foscolo, in particolare, si ricostruisce l'ultima parte della vita, quella corrispondente agli undici anni - dal 1816 al 1827 - di esilio volontario a Londra, non senza puntuali incursioni nei periodi precedenti: quello dell'infanzia e della prima giovinezza a Zante; quello del trasferimento a Venezia, degli esordi letterari, dell'ingresso nei salotti aristocratici più in vista e degli amori tempestosi con alcune delle nobildonne più belle, brillanti e "convenientemente puttane" del bel mondo di fine Settecento; quello della tormentata redazione dell'Ortis, che a Foscolo diede fama e successo, ma non denaro; quello della stesura delle Odi e dei Sonetti, che consolidarono la sua notorietà; quello del servizio militare nella Grande Armata napoleonica; quello della composizione dei Sepolcri, suo capolavoro; quello dei contrasti prima con il regime di Napoleone (che gli costarono la cattedra di Eloquenza all'Università di Pavia), poi - dopo la sconfitta di Bonaparte a Lipsia e l'inizio della Restaurazione - con gli austriaci, che lo costrinsero a espatriare in Svizzera e più tardi addirittura oltremanica.
 In Inghilterra Foscolo venne accolto come una delle personalità più notevoli del proprio tempo, e gli furono aperte le porte delle case gentilizie più prestigiose; e tuttavia, la tendenza a vivere costantemente al di sopra delle proprie possibilità, l'esagerata considerazione di sé, la pretesa di guadagnare con la letteratura sfruttando un circuito editoriale del quale non solo non conosceva bene i meccanismi, ma non padroneggiava nemmeno alla perfezione la lingua d'elezione, e - infine - il temperamento tutt'altro che accomodante gli alienarono le simpatie di molti, lo isolarono sempre più, e lo sprofondarono in difficoltà economiche a tratti perfino drammatiche.

Luigi Guarnieri

 Costretto a cambiare spesso residenza e a nascondersi sotto falso nome per sfuggire ai creditori (che, a un certo punto, riuscirono anche a farlo incarcerare), tormentato dalle liti perpetue con i suoi editori, i suoi traduttori, i suoi finanziatori, restio a digerire il fatto che l'editoria è un'industria - e alle leggi della produzione industriale si deve piegare se vuole sopravvivere alle difficoltà del moderno mercato librario -, incapace di riconoscere i suoi lettori potenziali e di scrivere in maniera specifica per loro, fiaccato da una salute sempre più cagionevole, inviso a causa delle sue intemperanze anche a parecchi suoi connazionali (nonostante la gloria passata e la persistente notorietà), Ugo Foscolo condurrà a Londra e nei suoi sobborghi un'esistenza assai precaria e spesso oscura, allietata soltanto dalla presenza accanto a sé di Miss Floriana, la sua misteriosa figlia naturale destinata, dopo il decesso del poeta, a spegnersi a sua volta giovane, probabilmente di tisi. 
 Se al momento della morte la sua stella risultava vagamente appannata, Foscolo vedrà la propria popolarità crescere nuovamente nei decenni successivi alla scomparsa in virtù soprattutto della sua capacità di rappresentare lo "spirito italiano" in un'epoca, quale quella risorgimentale, affamata di glorie letterarie nazionali. 
 Così, nonostante la biografia a lui dedicata da Giuseppe Pecchio non gli rendesse certo onore (e anzi lo calunniasse in più punti), e nonostante un altro esule celebre, Giuseppe Mazzini, avesse disatteso il proposito - manifestato a più riprese a Quirina Mocenni Magiotti, la "donna gentile" con cui Silvio Pellico intrattenne una assidua corrispondenza, e che fu la più affezionata a Ugo tra le numerose nobildonne che Foscolo amò - di occuparsi in prima persona della ricostruzione dell'avventura umana del poeta, l'autore di A Zacinto entrò di diritto, in nome della vita e della letteratura, nel Pantheon degli indomiti eroi della nuova Italia. 
 Qualche anno dopo l'Unità, nel 1871, le sue spoglie mortali saranno finalmente trasferite dal piccolo cimitero di Chiswick, in cui erano state inizialmente tumulate, alla basilica di Santa Croce a Firenze.
 Il libro è pieno di curiosità e per molti versi anche godibile, ma non mi convince fino in fondo. Il tono che Guarnieri utilizza - certo per evitare i rischi, sempre in agguato per i biografi, dell'agiografia e della pedanteria - vuole essere palesemente leggero, magari anche scanzonato, ma finisce per essere invece inutilmente, forzatamente dissacrante. 
 Diciamo che il narratore applica alla trattazione del personaggio letterario di cui parla gli stessi criteri che un sito come - poniamo - Dagospia applica alla trattazione della politica: tutto tende ad essere messo in ridicolo o ridotto a pettegolezzo, quasi si avesse timore di essere presi per degli sprovveduti o dei bacchettoni nel momento in cui si discutesse di qualcosa con un minimo di serietà. 
 Questo gioco, protratto oltremisura e portato alle sue estreme conseguenze (per cui nulla sembra degno di essere sottratto al registro farsesco), oltre a risultare alla fine un po' stucchevole, induce il lettore a ricavare l'impressione che l'autore non creda davvero fino in fondo in quello che sta facendo.

Voto: 5,5 

domenica 15 settembre 2019

Giorgio Bassani, "Il giardino dei Finzi-Contini", Feltrinelli


 In occasione dell'ottantesimo anniversario dell'inizio della Seconda guerra mondiale, ho deciso di riprendere in mano Il giardino dei Finzi-Contini di Giorgio Bassani, uno dei testi che meglio riescono a rappresentare la traumatica cesura storica che segnò lo scoppio del conflitto, e a mostrare la sostanza criminale - insieme tragica e ridicola - dei fascismi europei che prepararono e innescarono quella sconvolgente catena di eventi bellici.
 A parlare qui del libro mi spinge anche il fatto che oggi, nelle scuole, questo classico del Novecento pare sia molto poco frequentato; non so se per via dell'eccessiva rigidità di tanti insegnanti nell'interpretazione di programmi comunque assai cospicui, se per l'imbarazzante ignoranza riguardo a buona parte della letteratura - italiana e non italiana - degli ultimi 150 anni che affligge molti di coloro che hanno alle spalle una formazione umanistica, o se per il peso che tuttora conserva il giudizio ottuso e sprezzante sull'autore del Giardino di alcuni esponenti della neoavanguardia del Gruppo 63 (per i quali, lo ricordiamo, Bassani e Cassola erano "le Liale degli anni sessanta").
 Eppure il testo, oltre a essere stilisticamente finissimo e letterariamente assai gustoso, appare molto moderno, leggibile, capace di appassionare senza fatica anche un giovane lettore contemporaneo, con personaggi accuratamente cesellati e perfettamente credibili, un tono che sa tenersi ugualmente lontano dalle paludi del patetismo e dalle secche della tetraggine - nonostante la "serietà" degli argomenti trattati -, e uno sviluppo narrativo equilibrato e studiato per coinvolgere tanto dal punto di vista emotivo quanto dal punto di vista intellettuale.
 Ricordo che, quando lessi il libro per la prima volta molti anni fa, lo trovai memorabile perché riusciva a declinare con estrema efficacia il concetto di ineluttabilità del destino, spogliandolo di ogni vaghezza romantica e trasformandolo nell'esemplificazione dell'impotenza dell'uomo di fronte all'inesorabile ferocia dei meccanismi storici determinati insieme dalla politica, dalla società e dal caso. 
 Rileggendolo ora, resto ammirato di fronte alla dolcezza di certe descrizioni, all'eccezionale sottigliezza di alcuni dialoghi, alla capacità di Bassani di saldare il piano diegetico e quello simbolico, di narrare e di alludere insieme, di esaminare la Storia (con la S maiuscola) parlando di amore e di amicizia. Il giardino dei Finzi-Contini è uno di quei rari romanzi che spesso chi si occupa di letteratura finisce per apprezzare al punto tale da rammaricarsi di non avere scritto nulla di simile. 

Giorgio Bassani

 Fra i passi che preferisco voglio qui metterne a fuoco tre: il primo, quasi all'inizio del romanzo, è il racconto - condotto dal protagonista narratore, che però riporta le parole e i giudizi del padre - dell'acquisto del "Barchetto del Duca" e dell'edificazione della "Magna Domus" e dell'orrenda tomba di famiglia da parte del patriarca Moisè Finzi-Contini (detto al gatt): la perfetta costruzione del mito familiare.
 Il secondo è il lungo resoconto dei dialoghi telefonici tra il protagonista e Micol Finzi-Contini, intrisi di dolcezza e di una dissimulata malinconia per ciò che - già si intuisce - fra loro avrebbe potuto essere e non è stato: la costruzione del mito dell'amore mancato, spesso, nel ricordo, più forte di un amore vissuto.
 Il terzo è il lungo brano in cui vengono descritte le uscite serali e i discorsi del protagonista e di "Giampi" Malnate, il giovane chimico milanese, amico di Alberto Finzi-Contini, che con lui frequenta il giardino, e che forse è diventato l'amante segreto di Micol; il ragazzo che con la sua incrollabile fede politica crede in un futuro "lombardo e socialista", ma che è destinato a soccombere nelle steppe russe al seguito della spedizione italiana del 1941: la costruzione del mito di un'amicizia chimerica.
 E del mito, della storia appartenente a un passato irrecuperabile eppure imbevuta dell'essenza dell'eternità ha il sapore l'intero romanzo, che, come tutti i capolavori, riesce sempre, ogni volta che ci si sprofonda in esso, a insegnare qualcosa di nuovo, a regalare qualcosa di prezioso.

Voto: 9

domenica 8 settembre 2019

Cristina Marconi, "Città irreale", Ponte alle Grazie


 Città irreale è la storia di una ragazza e di una metropoli. Alina, giovane romana appartenente alla media borghesia (il padre è proprietario di un negozio di abbigliamento ben avviato), nel 2008, nonostante una laurea e un posto di lavoro di buon livello presso un'agenzia di comunicazione nella sua città, decide di lasciare l'Italia e di trasferirsi a Londra.
 Alina sa benissimo che rischia di andare ad occupare una posizione inferiore a quella che ricopre a Roma, magari addirittura di finire a fare un lavoro da segretaria, ma semplicemente non ne può più dell'inerzia e della rigidità del sistema italiano: del vieto meccanismo per cui ogni passo avanti dal punto di vista professionale, sociale e persino sentimentale avviene sempre e solo - con esasperante lentezza - per anzianità o cooptazione, e mai in virtù del merito, dell'impegno, dello slancio volontaristico, dell'estro, della fiducia.
 Da questo punto di vista, Londra, con le sue aperture, il suo dinamismo, la sua multiformità, la sua disponibilità sembra davvero un altro mondo: uno vi si può anche smarrire, vi si può sentire disancorato dalla propria storia, ma riuscirà comunque a trovarvi qualche appiglio per cercare di reinventare il proprio futuro senza sentirsi imprigionato in uno schema fisso che non offre via di scampo.
 E a Londra, Alina, superate le ovvie difficoltà iniziali, riesce davvero a trovare una sua dimensione: nel lavoro ingrana con grande facilità, e scala velocemente posizioni dentro l'agenzia che l'ha assunta; presto, abbandonata la stanza che temporaneamente occupa a casa di Ilaria - una vecchia conoscente che ha messo su famiglia nella capitale britannica -, prende in affitto un grazioso appartamento bianco come una bomboniera insieme a Katie, la sorella-avvocato della sua collega Sally; e, frequentando gli amici inglesi di Katie, incontra Iain, un giovane medico serio e generoso, che conosce e ama l'Italia, e che presto diventa il suo fidanzato.
 Nella nuova vita della ragazza italiana, i fattori predominanti sono il desiderio di una continua evoluzione, la proiezione verso un futuro ancora indeterminato, l'assenza di pastoie e di impegni troppo vincolanti. Così, quando Iain, in procinto di trasferirsi a Bristol nel cui ospedale è stato richiamato, chiede alla fidanzata di sposarlo e di seguirlo nella provincia inglese, Alina - pur innamorata - preferisce rinunciare a lui e, inevitabilmente, al gruppo di amici che gli sono legati piuttosto che lasciare Londra e il vasto spazio di infinite possibilità che il suo territorio urbano ai suoi occhi configura.
 Dal momento del distacco da Iain, però, la continua crescita professionale della protagonista non viene accompagnata da una analoga maturazione dal punto di vista emotivo: le sue nuove frequentazioni sono imperniate su un gruppo di espatriati italiani la cui anarchia post-studentesca e la cui consapevole e compiaciuta ricerca della provvisorietà permettono ad Alina di specchiarsi nelle sue paure e nella sua indeterminatezza; le brevi storie erotico-sentimentali che punteggiano il suo nubilato sono sempre all'insegna di un disimpegno talvolta divertente, ma talaltra francamente stucchevole; il fascino che Londra e i suoi ambienti continuano a esercitare su di lei trova un limite evidente nella convenzionale patina di piacevolezza internazionale che, in molti quartieri, ha insensibilmente ricoperto le tracce residue della storia della città.

Cristina Marconi

 E così, l'inattesa e improvvisa perdita del lavoro che, a seguito di una ristrutturazione dell'organigramma della sua azienda, Alina deve affrontare costringe la ragazza a fare i conti con ciò che in precedenza ella tendeva a eludere: il fatto che non ha mai dimenticato Iain (rispetto al quale si sente in colpa anche per non aver saputo approfondire il buco nero che grava sul passato del giovane, vale a dire il suicidio della sua storica fidanzata Vicky), il fatto di sentire un nuovo bisogno di stabilità, il fatto di cominciare ad accorgersi dei limiti che comporta il modello di sviluppo urbano e sociale scelto da Londra (che pure ella continua ad amare alla follia).
 La riconciliazione voluta, cercata, conquistata con Iain - infine disposto a chiedere il trasferimento dall'ospedale di Bristol a un nosocomio londinese - regalerà infine ad Alina una nuova vita e un nuovo equilibrio, coronato dalla gravidanza e dalla nascita di Emma, oltre che da una diversa visione del mondo, che la porterà addirittura a mettere in discussione, proprio alla vigilia del voto britannico a favore della Brexit, la bontà della scelta di trasformare Londra nella città multietnica per eccellenza, culturalmente senza confini e aperta a tutti per vocazione; pena, però, la perdita della sua anima tradizionale.
 Il libro è tutto giocato sull'intreccio di due linee narrative: ci sono capitoli di impostazione diaristica, in cui è la stessa Alina a raccontare di sé, a riflettere, a rivelarci i suoi pensieri e a dichiarare le sue opinioni; e poi ci sono capitoli in cui un narratore esterno ci racconta in terza persona le vicende di Iain, di Vicky e del loro amico Macca.
 La prima linea narrativa è senz'altro quella predominante (se non altro per lo spazio che occupa all'interno del romanzo), mentre la seconda, segnata da un distacco temporale rispetto all'altra che si va progressivamente assottigliando con lo sviluppo del testo (configurandosi di fatto in una serie di flashback diversamente dislocati dal punto di vista cronologico) ha una funzione soprattutto strumentale, e pare anche un po' più anonima dal punto di vista stilistico.
 Per la verità le due linee narrative non si sposano benissimo: nel lettore persiste una sensazione di sfasamento, come se qualcosa nell'architettura diegetica del romanzo non fosse pienamente risolto.
 Allo stesso modo, non del tutto compiuta mi sembra la riflessione che, attraverso il punto di vista di Alina, viene svolta su Londra, sulla sua immagine, sul suo ruolo nell'Europa contemporanea.
 Mi spiego: Alina seguendo un'ispirazione che risale addirittura all'infanzia, quando ormai si avvicina ai trent'anni, decide di lasciare l'Italia e Roma, e di trasferirsi a Londra alla ricerca di più tolleranza, di maggiore elasticità e apertura mentale, di più possibilità di scelta, di maggiore attenzione alle aspirazioni dell'individuo e alla sua libertà. La sua adesione a tutto ciò che Londra incarna è tale da sacrificare ad essa ogni cosa, a un certo punto anche i sentimenti che ella nutre nei confronti di Iain.
 Poi, quando ritrova Iain e si rende conto di quanto sia stata dolorosa la loro separazione, la ragazza pare rinnegare la propria scelta e, nel precipitare verso un lieto fine coerente con lo sviluppo narrativo ma lievemente melenso, arriva a riconoscere la legittimità delle opinioni di Macca e di sua moglie Lucy, che dichiarano di essere intenzionati a votare affinché il Regno Unito abbandoni l'Unione Europea proprio in virtù dell'eccessiva "apertura" alla quale Londra avrebbe sacrificato la sua specificità britannica.
 In sostanza, è come se la protagonista scivolasse frettolosamente da un'analisi "ragionata" della realtà che tanta parte ha avuto nel determinare l'assetto che ha assunto nel tempo la sua esistenza, a una considerazione superficialmente emotiva - basata su osservazioni estemporanee - dell'ambiente a cui ormai appartiene e che per tanti versi dovrebbe sentire indissolubilmente legato al suo essere; il tutto senza che a questo slittamento venga dedicato un approfondimento vero.
 Il lettore, in verità, ne resta un poco sconcertato.

Voto: 6 -

sabato 31 agosto 2019

Fernando Aramburu, "Dopo le fiamme", Guanda


 Costituito da dieci racconti, il libro insiste sui temi già trattati nei romanzi pubblicati da Aramburu negli ultimi anni: la controversa stagione dell'indipendentismo e del terrorismo basco con tutti i suoi strascichi, le crudeltà e le ingiustizie insite nella logica della lotta armata, le giustificazioni e i vizi del nazionalismo, la vischiosità dei pregiudizi, le diverse declinazioni del conformismo, l'inadeguatezza della complessità della coscienza al cospetto di una dialettica politica manichea, il valore e il dolore del dubbio, la pena per le vittime innocenti di un meccanismo spietato - quale quello della guerra civile - che trascina nei propri ingranaggi e stritola anche coloro che ad essa sono estranei.
 In particolare, la viva partecipazione alle sofferenze di coloro che restano coinvolti proprio malgrado in vicende che soverchiano e sfregiano la specificità dei destini individuali diventa una sorta di criterio unificante di tutte le storie narrate.
 I pesci dell'amarezza mette in scena un padre che vede la sua unica figlia restare invalida a seguito di un attentato compiuto a San Sebastian dagli indipendentisti nei pressi dello sportello bancario a cui ella si era recata per prelevare. La ragazza, uscita dall'ospedale dopo sei mesi di degenza, si chiude sempre più in se stessa, fino a perdere il fidanzato Andoni, che era in procinto di sposare, mentre Jesus, il padre-narratore, non può far altro che assistere malinconico e impotente al dilagare della mestizia all'interno della sua famiglia.
 Madri parla della moglie di un vigile urbano - mamma di tre figli ancora bambini - che viene assassinato dagli indipendentisti, in quanto rappresentante dell'autorità spagnola, come ritorsione in seguito all'accidentale uccisione di un ragazzo basco da parte della Guardia Civil. La donna, oltre ad aver perso il marito, è costretta a lasciare insieme ai figli la sua casa e la sua città per via dell'ostilità manifesta di tutti coloro che le sono intorno, in particolare dell'anziana madre del ragazzo ucciso, sua antica conoscente, fanatica nazionalista incattivita dalla propria sorte. 
 Maritxu è la storia della madre di un giovanissimo terrorista, rinchiuso in carcere e destinato a restarci a lungo, che vede tutti coloro che lo hanno spinto alla lotta armata e assecondato nel percorso che ha scelto - e per cui sta pagando - vivere tranquillamente la propria vita, del tutto dimentichi del ragazzo che marcisce in prigione.
 In La cosa più bella erano gli uccelli, una madre racconta al figlio l'episodio dell'assassinio di suo padre - nonno del bambino - avvenuto molti anni prima, quando ella era solo una ragazzina; e la specificità del racconto sta proprio nel prevalere del punto di vista della disorientata fanciulla di allora, rimasta improvvisamente orfana.
 La trapunta bruciata narra di una famiglia tanto concentrata sulla propria quotidianità borghese da faticare a rendersi conto del dramma dei propri vicini, presi di mira dall'ETA che, più che meritevoli di solidarietà, ai loro occhi, vengono percepiti come un fastidio.

 Fernando Aramburu 

 Relazione da Creta è uno dei racconti più lunghi: una giovane sposa, durante un momento di riposo nella sua meravigliosa luna di miele, scrive alla psicologa che ha aiutato suo marito a venire a capo del blocco dovuto al ricordo dell'assassinio di suo padre - un giudice -, avvenuto davanti ai suoi occhi quando egli era un solo bambino.
 Nemico del popolo è un pezzo particolarmente drammatico, essendo focalizzato sull'ostracismo sociale che viene decretato ai danni di Zubillaga, un falegname basco che la gente del suo villaggio, forse a torto, considera un delatore. Il disprezzo di cui Zubillaga viene circondato finisce per ricadere anche su sua moglie e sui suoi figli, a loro volta emarginati da ex amici e conoscenti. L'uomo, disperato, non troverà altra soluzione per uscire dal vicolo cieco in cui si è infilato che il suicidio, messo in atto lanciandosi da un ponte.
 Colpi sulla porta è la storia dell'incubo vissuto da un giovanissimo detenuto, accusato di essere un terrorista e sottoposto al regime di carcere duro varato dal Governo spagnolo all'inizio degli anni novanta per cercare di infliggere all'ETA un colpo mortale. Il fatto è che tutto quello che accade - i colpi dei manganelli degli agenti di custodia sulle sbarre, la luce accesa a più riprese in piena notte per non lasciar riposare i carcerati, la spogliazione dei detenuti di tutti i loro averi, le pressioni psicologiche, l'isolamento, l'allontanamento dei prigionieri dai loro cari - viene descritto con gli occhi di quello che non sembra un assassino sanguinario, ma solo un ragazzo spaurito.
 Il figlio di tutti i morti parla del figlio adolescente di una vittima dell'ETA che scopre che la ragazzina da cui ha ricevuto delle avances è la sorella della militante indipendentista responsabile, quattordici anni prima, dell'assassinio di suo padre, e ora - una volta uscita dal carcere - riaccolta in seno alla cittadinanza con tutti gli onori in nome del suo patriottismo. Per il giovane Inigo, allontanare la ragazza, che pure lo attraeva, diventa una scelta inevitabile.
 L'eponimo Dopo le fiamme racconta invece di uomo di nome Eusebio che, di ritorno a casa dopo essere stato tranquillamente a pescare, viene per caso ferito alle gambe mentre passa per il luogo teatro di un attentato incendiario degli indipendentisti baschi. Durante la degenza in ospedale, Eusebio si ritrova a condividere la stanza con un vecchio piuttosto scorbutico che - come avrà modo di scoprire chiacchierando con lui - è il padre di un terrorista in carcere da molti anni. Eusebio e il vecchio si renderanno presto conto di essere entrambi, ciascuno a suo modo, vittime di un'epoca tragica delle conseguenze della quale non possono essere ritenuti in alcun modo responsabili.
 Lo stile di Aramburu, mimeticamente proteiforme, si dimostra ancora una volta uno strumento perfetto per dare voce ai protagonisti di una stagione assai dolorosa e sovente dimenticata della storia recente d'Europa, in particolare alle vittime innocenti, a coloro che furono travolti dalla marea montante dell'intolleranza e della violenza senza avere nessuna specifica colpa.
 E mettere in scena letterariamente costoro, oggi, significa senza dubbio - fatta salva la complessità delle vicende narrate - lanciare un monito a tutti i lettori contro le incontrollabili conseguenze del fanatismo nazionalista.

Voto: 6,5

sabato 24 agosto 2019

Francesco Longo, "Molto mossi gli altri mari", Bollati Boringhieri


 Tramato di richiami simbolici e di riferimenti letterari, Molto mossi gli altri mari si muove sul crinale tra il libro di memorie e il Bildungsroman
 La storia è ambientata nella baia di Santa Virginia, immaginaria località balneare non troppo lontana da Roma (città in cui vivono molti dei personaggi del romanzo, abituati a passare l'estate al mare, e che risulta facilmente raggiungibile in giornata prendendo il treno), descritta però come se si trovasse in un altrove remotissimo, quasi isolata in una mitica California (nei mesi freddi la Capitale sembra galleggiare in un'altra dimensione, e grandi mareggiate sferzano il litorale dove gruppi di appassionati praticano il surf su onde altissime).
 Protagonista e narratore della vicenda è Michele, che della compagnia di ragazzi abituati a riunirsi ogni estate a Santa Virginia è l'unico a risiedere stabilmente lungo la costa. 
 Il tempo del racconto vede un Michele già adulto - ormai intorno alla trentina - che, in un'epoca a noi molto prossima, nei giorni che segnano il termine della stagione della villeggiatura, tra la fine di agosto e l'inizio di settembre, rievoca le estati di molti anni prima, quelle che vanno dalla preadolescenza alla prima giovinezza della maggior parte dei personaggi, abbracciando il periodo della scuola superiore e dell'Università: le estati del suo amore a lungo cullato e mai pienamente sbocciato per Micol, un'incantevole coetanea di origine ebraica e dall'aria lievemente esotica, la cui famiglia è proprietaria di una delle ville che sorgono dietro la spiaggia. 
 Mentre Michele racconta, si creano le condizioni affinché la grande compagnia di un tempo - composta da giovani diventati quasi tutti abili praticanti del surf - si possa ritrovare per un'ultima volta a Santa Virginia, in occasione di una mareggiata che si annuncia irripetibile: incontriamo così Silvia, la più bella, bionda ed elegante, forse un po' ammaccata per le delusioni patite crescendo; Guido, il leader carismatico del gruppo, avvenente e volitivo, storico fidanzato di Silvia (poi lasciata per una bella spagnola), sempre brillante e sempre alla ricerca di nuove esperienze, protagonista dell'introduzione del surf nella baia dopo alcuni mesi passati all'età di diciott'anni a San Diego; il Cicogna, il più colto e studioso di tutti, spalla ideale di Guido all'ombra del quale ha sempre vissuto; Margherita, svagata e sognante, diventata famosa con il cinema e la pubblicità; e poi Valentina, e Cristiano Bodoni, e Luca Pacchetti, e Gabriele, e molti altri. Ma, soprattutto, è attesa Micol, eclissatasi da tanto tempo, e ora, a quanto sostiene Silvia, in procinto di sposarsi e di trasferirsi a Tel Aviv. 

Francesco Longo

 Il progressivo aumento dell'altezza delle onde e il crescere della tensione, mano a mano che si avvicina il climax della mareggiata e del racconto, scandiscono la narrazione delle annate che nel passato si sono succedute a Santa Virginia, comunque sempre dominate dall'attrazione di Michele per Micol, spesso così vicina, forse a tratti persino innamorata, eppure sempre inafferrabile, perché impegnata con altri, perché persa in sogni indecifrabili, perché immersa in una vita diversa, perché affascinata da qualcosa di ulteriore, di impersonale, di grande, di vago, di irriducibile all'amore che Michele prova per lei.
 Il finale inopinatamente tragico coinciderà con la caduta dell'ultima illusione, quella che Micol possa, quasi fuori tempo massimo, decidere di legare le proprie chimere alla domesticità dell'universo del protagonista.
 A Francesco Longo riesce una fusione che, a tutta prima, parrebbe molto difficile: quella fra Big Wednesday e Il giardino dei Finzi-Contini: il mito della prova suprema, che compendia e chiude la giovinezza, con le sue meravigliose aspirazioni e le sue utopie destinate a cadere, coniugato alla storia di un amore profondo che le circostanze, la storia, il destino, la propria inadeguatezza e l'umore stravagante e l'estrosa astrattezza delle fantasticherie dell'amata rendono impossibile.
 La Micol di Longo non presenta certo la complessità di quella di Bassani, ma con la sua eccentrica svagatezza ha fascino da vendere; il cimento finale dei personaggi di questo romanzo non possiede la grandiosità leggendaria di quello messo in scena da John Milius, ma riesce comunque a fungere da potentissimo centro di gravità narrativo, proiettando in una dimensione in qualche modo epica le piccole vicende personali dei personaggi di Molto mossi gli altri mari.
 Lo stile fluido ed efficace, governato dall'autore con grande consapevolezza, inoltre, rende la lettura sicuramente piacevole e a tratti anche appassionante, grazie al richiamo irresistibile che l'invito all'immedesimazione in una giovinezza inventata riesce a esercitare sulla maggior parte di noi.

Voto: 6,5